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The Last of Us – Parte 2: perché dobbiamo soffrire?

Perché The Last Of Us – Parte 2 ci mette nella posizione di vivere situazioni così dolorose? Perché questa narrazione non è stata accettata da tutti? E perché questo titolo comunque segnerà la storia dei videogiochi?

ATTENZIONE: questo articolo contiene estesi SPOILER su The Last of Us – Parte 2!

Dopo sette anni dall’uscita di un monolite che ha dato un importante contributo alla filosofia di progettazione dei videogiochi, dal 21 Giugno 2020 possiamo mettere le mani sul secondo capitolo di The Last Of Us. Ancora circondati dai clicker, sempre muniti di qualsiasi cosa possiamo trovare per strada sia trasformabile in arma, immersi negli Stati Uniti d’America post-apocalittici, cerchiamo di sopraffare i pericoli che ci circondando.

Dopo aver giocato dall’inizio alla fine The Last Of Us – Parte 2, e dopo averci riflettuto a lungo, ecco una recensione ragionata del gioco. Dopo una breve finestra di commento al gameplay, parleremo di questo titolo e delle sue scelte narrative, cercando di capire le motivazioni dietro al tipo di storia che viene raccontato e, soprattutto, dietro al modo in cui il gioco ci racconta e ci fa vivere questa storia. Parleremo quindi anche di come The Last Of Us – Parte 2 sia estremamente interessante per inquadrare la crescita del videogioco come mezzo di comunicazione.

Come da disclaimer, questa recensione conterrà degli SPOILER, quindi invitiamo chi non ha giocato a The Last Of Us – Parte 2 a leggere solo se è disposto/a a scoprire svolte di trama importanti.

Il gameplay di The Last Of Us - Parte 2 ha interessanti innovazioni
Il gameplay di The Last Of Us – Parte 2 ha interessanti innovazioni

Una breve introduzione sul gameplay di The Last Of Us – Parte 2

The Last Of Us – Parte 2 ha mantenuto la struttura generale di gameplay e narrazione simile al precedente, con delle piccole evoluzioni. Grazie anche all’ampiezza maggiore degli ambienti, è possibile evitare molti combattimenti rimanendo in stealth. Possiamo quindi sfruttare la classica posizione accovacciata, o nuovi elementi di ambientazione che ci permettono di aggirare i nemici come l’erba alta. Ma possiamo anche proseguire proni per terra, scivolando in aree più strette un tempo considerate inaccessibili.

Nel caso si preferisca, o si incappi involontariamente in uno scontro d’azione, possiamo ingaggiare in combattimenti più complessi grazie all’aggiunta della schivata. Per difenderci da tipologie diverse ancora più numerose di nemici, il quantitativo di armi a nostra disposizione aumenta col progredire del gioco. Alla fine, come nel capitolo precedente, forse raggiungiamo persino un eccessivo numero di opzioni, che nei momenti più frenetici ostacolano la scelta.

Il mondo di The Last Of Us – Parte 2 non sfrutta solo la tecnologia della console al suo massimo potenziale per mostrare ambienti ancora più realistici e vasti, ma ogni singolo dettaglio posizionato dagli sviluppatori racconta qualcosa. In questo modo, si costruisce un mondo estremamente complesso al di fuori di quello dei singoli protagonisti. Andiamo così dai collezionabili sparsi in giro, come le lettere, o scritte di propaganda sui muri, gli stili di combattimento di diverse fazioni, o frasi rituali di personaggi secondari, fino alle conversazioni opzionali. Che sia dentro le mura di Jackson o al di fuori di esse, ogni elemento si articola a ciò che ha intorno, mostrando come cause e effetti si relazionano e influenzano l’uno con l’altro. 

Joel in The Last Of Us - Parte 2
Joel in The Last Of Us – Parte 2

The Last Of Us – Parte 2: perché dobbiamo soffrire?

Attraverso la storia di Joel, Neil Druckmann ha fatto capire al pubblico di non essere interessato alla narrazione eroica convenzionale.

Con Uncharted 2, ma anche il più recente Uncharted 4, altri due progetti Naughty Dog a cui ha lavorato, si conferma il suo interesse per personaggi moralmente discutibili posti al centro del racconto. Si tratta di personaggi tormentati da un obiettivo e disposti ad ottenere quello che vogliono ad ogni costo.

Il mercato dell’intrattenimento produce costantemente libri, fumetti, serie televisive, podcast, film dove l’eroe e il cattivo sono facilmente identificabili. Dove sappiamo che il protagonista deve lottare per il suo diritto di essere felice. Dove le sue azioni sono giustificate e accettabili. Perché se lo merita. Perché è l’eroe. E l’eroe, in qualche modo, siamo noi.

Spesso questo eroe non è un santo, ma la sua capacità di soffrire a causa di svariate ingiustizie rendono facile spostare l’ago della bilancia. La storia con i suoi alti e bassi ci permette di accettare, e spesso farci affezionare, ad un personaggio che ha compiuto un’azione discutibile, un sacrificio morale, che però non sarà mai grave quanto ciò che l’antagonista è capace di fare.

Come ha fatto The Last Of Us – Parte 2 a creare così tanto scompiglio con una sola ora di gioco?

The Last Of Us ha stupito la critica e il pubblico nel 2013, con la capacità di trasmettere da un freddo schermo, attraverso un plasticoso joypad, la crescita del rapporto tra Joel ed Ellie. Questa reciproca fiducia parallelamente fa breccia nella nostra testa (o nel nostro cuore) grazie ad accurate scelte narrative. Infatti, non solo dobbiamo premere tasti per sparare ai nemici, ma anche per interagire, chiacchierare, porgere la mano ad Ellie quando la aiutiamo a superare un salto nel vuoto in un edificio pericolante.

I momenti di interazione non sono Quick Time Event fini a se stessi, ma istanti cruciali per la la formazione di questo rapporto. Premendo quei tasti, siamo quindi responsabili e compartecipi della nascita e crescita del loro rapporto, non meri spettatori passivi. Una delle scelte di gameplay più sorprendente è quando questa ragazzina, questa damsell in distress, è costretta a diventare il nostro avatar nel DLC Left Behind.

E da questo rapporto di fiducia, dobbiamo guardare l’altro lato della medaglia e vedere le cose dalla sua prospettiva.

The Last Of Us – Parte 2 continua a chiederci di indossare i panni di due diversi personaggi. Ma questa volta sembra che una di queste non sia dalla parte dei buoni. Chi potrebbe mai accettarlo?

Il tema della vendetta è una costante di The Last Of Us - Parte 2
Il tema della vendetta è una costante di The Last Of Us – Parte 2

Perché per molti The Last Of Us – Parte 2 non ha funzionato?

Se ciò che ci viene offerto sul mercato videoludico ci abitua e coccola in un ripetitivo schema dove io partecipo, condivido e vivo un’avventura che mi porta a vincere e ottenere un risultato soddisfacente in un travagliato arco narrativo/ludico, non c’è nulla di strano se gran parte del pubblico non accetta di essere scaraventata giù dalla giostra.

Abituati a vivere esperienze videoludiche dove il premere tasti ci permette di ottenere sudate vittorie che non sempre ci vengono garantite nella vita reale, può essere scontato che dopo poche ore di gioco di The Last Of Us – Parte 2 tutto quello che si vuole fare è lanciare il controller al muro e spegnere la PS. Così su Metacritic molti giocatori che non hanno preso bene alcune scelte narrative hanno condiviso la propria opinione col mondo, inserendo valutazioni totalmente negative. Abbiamo parlato di questo review bombing qui.

Dopo aver comprato il titolo a prezzo pieno, si sono sentiti traditi da una storia che li costringe ad attuare il brutale omicidio di Joel. Quel Joel di cui avevano indossato i panni nel primo titolo, con cui avevano condiviso ore e momenti, e avevano aiutato a salvare quel poco che gli era rimasto, in un mondo crudele e violento.

Perché dobbiamo fare cose che non vogliamo?

Nel primo titolo, le meccaniche di gioco non ci permettono di scegliere cosa può fare Joel, ma solo di attuare le sue azioni, diventandone complici. Fin dal prologo, la narrazione è articolata in maniera tale da capire, empatizzare, giustificare e motivare ogni singola violenza che perpetua, anche se sappiamo che è non è quella più giusta. Rimaniamo sempre inabili di scegliere il risultato finale delle decisioni.

Il sequel non si discosta affatto in termini di controllo della narrazione. Ma anziché ripetere lo stesso schema del suo predecessore, da una storia lineare ribalta completamente gli schemi a cui siamo abituati. Così, costruisce una delicata relazione tra passato a presente, tra foreshadowing e flashback, non solo dal punto di vista di Ellie, ma anche di quello della sua nemica, Abby. Questi scambi continui ci permettono di giocare attivamente, e non solo assistere passivamente, alla personale visione degli eventi delle protagoniste. Così come è presente in loro in quel momento del gioco, la confusione della situazione può farci sentire incerti dal premere subito il tasto quadrato quando vediamo la piccola icona sullo schermo per colpire violentemente un nemico.

Impersonare Abby in The Last Of Us - Parte 2 ci costringe a mettere in discussione la nostra scala di valori
Impersonare Abby in The Last Of Us – Parte 2 ci costringe a mettere in discussione la nostra scala di valori

Perché devo stare male?

Sofferenza, dolore, perdita sono le costanti di tutto il viaggio. Per tutto il gioco non sono solo le azioni delle due protagoniste ad essere disturbanti, ma tutto l’aspetto videoludico, dalle immagini ai suoni, raggiunge un realismo e una quantità di dettagli progettati per sottolineare l’orrore di un mondo dove la lotta per la sopravvivenza è questione di un secondo. 

Siamo obbligati a giocare scelte violente, e spesso insensate (o che vogliono apparire come tali), così come sono violente e difficili da attuare e giustificare totalmente per Ellie e Abby. Partecipiamo ad una lunga spirale di azioni dettate dalla sete di vendetta, osserviamo ciò che le due protagoniste sono disposte a fare, non solo per placarla, ma anche per dimostrare a se stesse e all’altra di cosa sono capaci. Per sopravvivere, per dichiarare i propri intenti e bisogni, per trovare un senso al proprio dolore.

La strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni

Uno dei trucchi usati dagli autori per allontanarsi da una storia dove i buoni e i cattivi sono facilmente identificabili è molto semplice: spostare il punto di vista dalla vittima all’abusatore. E continuare questo scambio fino alla fine del gioco, riempiendoci di dubbi e domande. A differenza di The Last Of Us, dove le meccaniche di gioco ti aiutano a stare dalla parte di Joel, in The Last Of Us – Parte 2 non smetti mai di chiederti “Cosa diamine sto facendo?”

L’intenzione di Neil Druckman era di raccontare una storia sul ciclo della violenza, come le azioni richiamano delle risposte, e mostrare tutti i differenti aspetti che possono scaturire da questo. Non necessariamente per parlare del bene o del male, ma per esplorare quante più possibili conseguenze in risposta a singole azioni.

Questo scambio di punti di vista non è solo dei personaggi, ma anche temporale. Continuando il gioco, ottenendo i flashback come prove della soluzione di un giallo, lentamente risolviamo le difficili scelte delle protagoniste capendone l’origine, la confusione, la rabbia. Otteniamo non solo delle semplici spiegazioni, ma una personale esperienza di gioco dove esploriamo i ruoli dei personaggi e la storia come se fosse anche nostra, in un modo che non avrebbe funzionato altrimenti. Tutto è architettato per mettere in discussione la nostra scala di valori, e il modo in cui reagiamo e viviamo la violenza, in maniera attiva attraverso il gioco, e non esclusivamente tramite dialoghi e cutscene. Perché non si tratta solo di battere un gioco fino ai titoli di coda con il joypad in mano, ma di risolverlo con la testa e col cuore.

The Last Of Us - Parte 2 ha dato vita a moltissime discussioni importanti sulla natura dei videogiochi
The Last Of Us – Parte 2 ha dato vita a moltissime discussioni importanti sulla natura dei videogiochi

Cosa ci rimane

The Last Of Us – Parte 2 ha anche il pregio di aver dato il via a tante altre discussioni.

Queste discussioni si basano non solo sulle scelte tecniche di scrittura, tecnologia e regia, ma anche su quelle di rappresentazione LGBTIA+ (ca confrontare con la rappresentazione della Disney o della Rowling). Si è parlato di marketing e e attinenza tra trailer e prodotto finale, di depressione e problemi psicologici. Si è poi parlato della comunicazione tossica sui social tra mondo dei giocatori e professionisti del settore, della difficoltà di accettazione di figure femminili che divergono dallo status quo dell’immaginario pop o del sistema di crunch nell’industria videoludica. Sono temi complessi e vasti, che ho preferito non inserire in questo articolo, e meriterebbero uno spazio dedicato. 

In definitiva, The Last Of Us – Parte 2 dimostra come i videogiochi stiano continuando a crescere, e oltre a portare momenti di riflessione, forniscano ancora tante altre possibilità di sperimentazione.

Quello di Ellie e Abby è un lungo viaggio, l’uno lo specchio dell’altro. Difficile e complicato, reale e commovente. Non sminuiscono, ma anzi elevano l’esperienza del gioco, senza far nascere la preoccupazione di non poter includere il termine “divertimento” per riuscire a definirlo, incasellarlo, circorscriverlo, etichettarlo. 

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