Perché gli scrittori indipendenti, e specialmente gli scrittori fantasy indipendenti, pubblicano libri sotto pseudonimo? Ecco alcune delle motivazioni più comuni: privacy, esterofilia e stereotipi di genere.
Usare uno pseudonimo è una cosa che gli artisti fanno da tempo immemore senza che ciò crei grossi problemi nel pubblico.
Tantissimi attori usano nomi d’arte per il semplice motivo che il loro nome originale non suonava abbastanza accattivante, come Norma Jeane Mortenson Baker in arte Marilyn Monroe. Oppure lo fanno per darsi un tono internazionale, come accadeva nelle produzioni italiane degli anni ’60/’70.
Per i cantanti è la stessa cosa, anche più evidente come nel caso di Louise Veronica Ciccone che ha scelto il provocatorio nome d’arte di Madonna. O è parte integrante di alcuni generi musicali, come il rap e il black metal.
Arti visive? Da Caravaggio a Banksy la lista sarebbe lunga. E nel fumetto nessuno si stupisce che Jean Giraud si firmi Moebius o che Michele Rech usi il suo nickname Zerocalcare.
Anche in letteratura tanti autori hanno utilizzato degli pseudonimi: Fred Vargas, George Elliot, Lewis Carroll, George Orwell etc. Stephen King creò un vero e proprio alter ego, Richard Bachman, per poter pubblicare cose un po’ diverse dalla sua normale produzione e superare i suoi limiti contrattuali.
Quando si tratta di autori indipendenti, però, tanti si straniscono. E ne ho sentite di ogni, eh? “Ti vergogni di quello che scrivi, hai paura del fallimento, tradisci te stesso”. Un lettore davvero davvero davvero stupido scrisse un rant dichiarando di sentirsi “truffato”, perché un autore italiano si firmava con un nome anglosassone.
Ora, i motivi per scegliere uno pseudonimo possono essere diversi, dai più seri al più banale “non mi piace il mio nome”. Proviamo a vedere quali sono quelli principali. E per i più cagacaz- ehm, per i più pignoli sottolineiamo alcune cose:
- No, non è una lista esaustiva;
- I motivi per cui si fa una scelta possono anche essere compositi e stratificati quindi non sono necessariamente opzioni esclusive.
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Scegliere uno pseudonimo per pubblicare all’estero
Non è sicuramente la motivazione principale, perché di autori indipendenti italiani in grado di proporsi all’estero (e con “estero” intendo principalmente il mercato anglofono) sono pochissimi, anche se qualcuno, rispetto al passato, c’è. Se si punta agli States, però, bisogna tener conto che farlo con un nome da “macaroni” potrebbe risultare un ostacolo per una certa chiusura mentale degli statunitensi.
Parlando del mondo del fantastico (che è quello che bazzico io) devo però dire che la wave degli ultimi anni che ha visto emergere autori e autrici magari statunitensi, ma decisamente non WASP, potrebbe aprire degli spiragli fino ad oggi molto ristretti.
Scegliere uno pseudonimo per pubblicare in Italia
Diametralmente opposto al problema precedente è quello del nostro mercato interno. Infatti, il lettore italiano, soprattutto quello di genere, è estremamente esterofilo, in particolare anglofilo, e nutre fortissimi pregiudizi nei confronti degli autori italiani.
Detto che i suddetti pregiudizi non è che non abbiano le loro ragioni, si arriva all’estremo per cui tanti lettori se leggono un nome italiano non prendono nemmeno in considerazione il libro. Non dico di comprarlo e leggerlo, ma manco di sbirciare la quarta di copertina per vedere se la storia possa essere interessante. Italiano = merda, quindi salto-a-pié-pari. Questa cosa, oltre a essere terribilmente frustrante per chi scrive, è anche un bel problema per il mercato editoriale di un paese che è, piaccia o no, uno stagno linguistico.
È abbastanza intuitivo che il metodo più facile per superare questo bias cognitivo è quello di proporsi con un nome straniero.
Devo però dire, anche in questo caso, che le cose stanno un po’ cambiando. Nella nicchia della narrativa di genere c’è un po’ più di attenzione e apprezzamento per gli autori nostrani, complici anche realtà editoriali che puntano molto sul mercato interno.
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Scegliere uno pseudonimo per diversificare la propria produzione
Esistono autori prolifici, estremamente prolifici, per i quali pubblicare a proprio nome significherebbe ingolfare il mercato e una sovraesposizione che rischia di risultare deleteria. Faccio un esempio, non di un autore indipendente, ma pubblicato da case editrici: Stefano di Marino.
Di Marino scriveva a dei ritmi forsennati, riuscendo a uscire, tra romanzi e racconti, anche svariate volte l’anno. Rischiava di essere semplicemente “troppo”, soprattutto se magari si vuole uscire più volte per una stessa collana, come faceva lui con Segretissimo.
Per questo Di Marino ha pubblicato, oltre che a suo nome, anche con gli pseudonimi di Stephen Gunn, Xavier LeNormand, Etienne Valmont, Frederick Kaman, Alex Krusemark, Gilbert Oury e forse me ne sono perso altri per strada.
Oltretutto, Di Marino pubblicava anche generi diversi.
Questa è una cosa che tocca tanti altri autori che preferiscono dare una firma diversa a ogni filone narrativo che percorrono. Il motivo può essere quello di costruirsi un’identità forte e univoca all’interno di ogni nicchia, anche per non disorientare il lettore, che così associa un determinato nome al genere che predilige e non ha bisogno di chiedersi se quella determinata opera sarà del tipo che gli interessa o meno.
Parallelamente ci può essere una questione di generi che entrano in contrasto nell’immaginario del pubblico. Per cui, ad esempio, può essere deleterio pubblicare con lo stesso nome romanzi splatterpunk e libri per l’infanzia. In questo caso ogni pseudonimo funziona da “brand”, come potrebbe essere il nome di diversi progetti musicali per uno stesso musicista.
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Scegliere uno pseudonimo per evitare o sfruttare gli stereotipi di genere
La faccio breve: esistono degli stereotipi di genere abbastanza noti riguardo ai filoni letterari. Sono stupidi come tutti gli stereotipi, ma esistono e tocca farci i conti. Esempi pratici: horror e avventura sono generi “da maschi”, romance ed erotico sono generi “da femmine”. Il fantasy sta a cavallo, ma in base al sottogenere si possono trovare le stesse divisioni: high e low fantasy hanno il fiocco azzurro, urban fantasy ha il fiocco rosa.
Chiariamoci, non sto dicendo che non ci siano esempi, anche illustri, che contraddicano i suddetti stereotipi. Sto dicendo che in larghe fasce di pubblico si sono consolidati questi pregiudizi, che si trascinano fino ai giorni nostri. Sono comunque stereotipi che si legano a quelli che erano i target di riferimento del mercato. Ossia, per dire, le storie di avventura venivano pensate per un pubblico di ragazzini, mentre alle ragazzine venivano destinate le storie d’amore.
Pensiamo all’erotico (vabbé chiamiamolo così). La saga di 50 Sfumature, che ha determinato il boom del genere negli ultimi anni, è scritto da una donna e rivolto principalmente a un gruppo di lettrici. Di base è una storia romantica condita malamente di manette e frustini. Immaginate lo stesso tipo di storia firmata da un uomo. Come sarebbe stata percepita? Ve lo dico io: non come una fantasia di stupro ma come una vera e propria apologia dell’abuso.
È abbastanza comprensibile quindi che se un autore o un’autrice vogliano avventurarsi in un genere per il pubblico fortemente connotato, una via è quella di adottare uno pseudonimo dell’altro sesso o neutro, come hanno fatto Robin Hobb e J.K. Rowling per il fantasy e come fanno molti maschietti che pubblicano erotici con nomi femminili.
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Scegliere uno pseudonimo per difendere la propria privacy
Ultima, ma non in ordine di importanza (anzi), la questione privacy.
Ci possono essere molti motivi per volere mantenere separata la propria vita dalla propria produzione letteraria. I principali sono due: famiglia e lavoro. In entrambi i casi, la cosa è legata al giudizio e alle conseguenze che questo può avere. A volte può essere un giudizio legato a ciò che si scrive, ad esempio se si affrontano generi poco ben visti come l’horror o l’erotico. Oppure, ci può essere un giudizio legato all’attività stessa di scrittura, vista come una perdita di tempo, aggravata dall’infantilismo, se si scrivono cose di intrattenimento.
Molte persone, in particolare da giovani, si trovano in situazioni familiari nelle quali la loro passione viene osteggiata anche pesantemente. Quindi, per non subire pressioni indesiderate, preferiscono tenere per sé ciò che fanno.
Idem, sul fronte lavorativo. Qui, la scrittura può essere vista come una distrazione, come il sintomo che non si è pienamente realizzati nel lavoro e quindi non gli si sarà completamente dedicati. (Ho sentito DAVVERO fare questi discorsi a una selezionatrice del personale!)
E se state pensano che sia una scelta vigliacca, perché bisogna combattere certi stereotipi vi chiedo: se foste una donna che scrive romanzi erotici per diletto e perché ci alza dei soldi, come pensereste che vi vedrebbero i vostri colleghi? Come una autrice audace o come una “zo**ola che ha bisogno di ca**o”? E avreste davvero voglia di immolarvi sull’altare di una ipotetica coerenza per difendere quello che in genere è un hobby o, al limite, una seconda attività?
C’è chi lo fa e chi non ha la voglia o l’energia per prendersi ‘sta sbatta. Sono entrambe posizioni legittime e vanno rispettate.
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La mia esperienza personale
Nel 2005 ho pubblicato Luna Nuova, un lungo racconto gothic horror con una significativa componente di sesso e l’ho reso disponibile gratuitamente sui principali portali: Amazon, Kobo e iBooks.
All’epoca stavo cercando lavoro. Conoscendo persone che si occupano di ricerca del personale, conosco di prima mano quello che fanno alcune aziende quando valutano i candidati dopo averli visti: li googlano. E, in base a quello che trovano e ai loro pregiudizi, prendono delle decisioni. Un esempio? Un candidato praticamente scelto aveva su Facebook una foto con una bandiera arcobaleno della comunità LGTB. Improvvisamente non andava più bene.
Io avevo per le mani un racconto che shakerava sesso, morte e sovrannaturale ed era accessibile a tutti senza nemmeno un centesimo di spesa. Ho immaginato cosa sarebbe successo. E ho pensato che uno stipendio mi serviva e che non avevo voglia di giocarmi delle possibilità solo perché qualche imprenditore ha delle idee idiote.
Uno pseudonimo mi permette di poter scrivere un tentacle-porn per la fanzine Voci da R’lyeh, che viene messa in download gratuito, e non dovermi preoccupare che qualcuno venga a rompermi le palle. E mi ha permesso di dare vita ad antologie di racconti come Mari Aperti e Red Zone per raccogliere fondi rispettivamente per Open Arms e per ACAD – Associazione Contro gli Abusi in Divisa. Sempre senza dovermi preoccupare delle reazioni delle persone con cui mi trovavo a lavorare e che erano schifosamente di destra.
E no, non ci vorrei manco lavorare per certa gente. Ma se mi basassi su questo, vista l’imprenditoria italiana, morirei di fame.