Intervistiamo quattro membri dell’AIST sulle migliori e peggiori critiche mosse alla nuova traduzione de Il signore degli anelli.
Nel corso degli ultimi due anni, noi Cercatori abbiamo parlato diverse volte delle polemiche sorte attorno alla nuova traduzione de Il signore degli anelli, ad opera di Ottavio Fatica. A questo link potrete trovare tutti i nostri articoli in cui affrontiamo l’argomento.
Oggi è il 3 gennaio, ossia il giorno in cui ricordiamo la nascita di Tolkien. Vorremmo celebrare questo giorno mettendo la parola fine ai nostri articoli sulla nuova traduzione e sulle polemiche sorte attorno ad essa. Per decretare questa chiusura dei lavori sulla traduzione di Fatica (ma non su Tolkien in generale!), diamo spazio a una realtà nostrana che abbiamo citato spessissimo, ma a cui non abbiamo mai dato voce direttamente: l’Associazione Italiana Studi Tolkieniani (AIST).
Vediamo dunque cosa sia l’AIST, cosa c’entri con la nuova traduzione de Il signore degli anelli e, soprattutto, di cosa parlerà questo articolo.
Cos’è l’AIST?
L’Associazione Italiana Studi Tolkieniani (AIST per brevità) è un’associazione culturale volta alla promozione e allo studio delle opere di J. R. R. Tolkien, attraverso anche un dibattito di qualità e l’indagine delle opere transmediali legate al Legendarium tolkieniano.
In tal senso, l’AIST non solo promuove la pubblicazione di saggi e approfondimenti sull’aspetto letterario di Tolkien, ma organizza anche diversi eventi culturali a tema. Uno dei più noti è la biennale d’illustrazione FantastikA, di cui l’AIST è partner. Non vanno dimenticati poi i convegni tolkieniani accademici organizzati insieme a diverse università italiane, come quello dello scorso dicembre.
Sul fronte delle pubblicazioni, invece, l’AIST promuove non solo la produzione o la traduzione di nuovi studi su Tolkien, ma anche la traduzione delle stesse opere del Professore. È infatti ben nota, per esempio, la traduzione delle Lettere di Tolkien a cura di Lorenzo Gammarelli. Più recentemente, invece, è stata promossa dall’AIST la nuova traduzione de Il signore degli anelli, a cura di Ottavio Fatica.
Di cosa parla questo articolo?
Come dicevamo, questo sarà (si spera!) il nostro ultimo articolo sulla nuova traduzione de Il signore degli anelli. Speriamo, infatti, che poco a poco questa tematica smetterà di suscitare così tanto flame e che la nuova traduzione torni ad essere quello che è sempre stata: un lavoro tra i tanti, una traduzione tra le tante.
Poi, certamente, ognuno/a di noi ha il diritto di preferire una certa traduzione rispetto a all’altra, o di muovere ad ogni traduzione le critiche che ritiene più opportune. L’importante è che le critiche non scadano nell’hate speech, nella tifoseria e nella critica non supportata dall’effettiva lettura dell’opera. Purtroppo, parte della community tolkieniana italiana non sempre questa linea di confine è stata rispettata, e a farne le spese parrebbero essere stati soprattutto Ottavio Fatica e l’AIST.
Pertanto, in questo articolo intervisteremo quattro membri dell’AIST. Abbiamo posto loro una selezione tra le critiche legittime (e interessanti) e i commenti di polemica gratuita che sono stati rivolti alla nuova traduzione de Il signore degli anelli. I membri intervistati sono Roberto Arduini, Elisabetta Marchi, Giampaolo Canzonieri e Federico Guglielmi, i quali hanno dunque colto l’occasione per rispondere per le rime al peggior flame che abbiano mai ricevuto e per dare delle risposte serie alle critiche legittime.
Prendete questo articolo per quello che è: un’intervista semiseria, in cui si cerca di dare risposte (più o meno) sensate a domande e critiche sempre più assurde. Prendetelo come un’occasione per discutere da un lato, e un’occasione per sfogarsi dopo mesi di flame, accuse e insulti dall’altro.
Dopo questo sfogo catartico, speriamo di poter ripartire a parlare di Tolkien senza (troppo) flame.
Secondo Costanza Bonelli, Il signore degli anelli è un’opera che dovrebbe essere comprensibile da tutti, mentre la traduzione di Fatica è troppo difficile e non rivolta a un pubblico ampio. Voi dell’AIST che ne pensate?
The Lord of the Rings è senz’altro un’opera comprensibile a tutti, ma questo non significa che un lettore anglofono di media cultura si trovi a proprio agio con ogni parola o espressione nella prosa del romanzo. Incontra difficoltà e durezze.
Gli arcaismi lessicali
Chiediamoci ad esempio quanti giovani lettori britannici possono riconoscere nella parola «farthing» il significato di «quarta parte» con cui la usa Tolkien, considerando che il «farthing», il quarto di penny, è fuori circolazione da sessant’anni. E quanti conoscono l’aggettivo arcaico «fell» (crudele), che nel romanzo ricorre svariate volte? Forse i comuni lettori possono riconoscere in «mead» l’antenato di «meadow», dato che sarebbe come se al posto di «pascolo» io trovassi «pasco» e dovessi capire il significato a senso; che è probabilmente quello che accade anche quando invece di «near» leggono l’avverbio «anigh».
Davanti a una frase allitterante come: «But news from afar is seldom sooth», viene da chiedersi quanti anglofoni userebbero la forma arcaica «sooth» al posto di «truth». E quanti sanno cos’è un «vambrace»? O che «kine» è il plurale arcaico di «cow»? Quanti riconoscono il participio passato obsoleto «dolven», del già obsoleto verbo «to delve»? O la forma antico-inglese «wight» che significa «creatura»? O il poetico «laved» al posto del comune «washed»? Quanti capiscono precisamente il significato della frase pronunciata da Legolas: «Rede oft is found at the rising of the Sun»? Ancora: quale anglofono non assocerebbe i luoghi chiamati «Harrowdale» e «Dunharrow» all’agricoltura, ma alla religione pagana, dato che nell’inglese parlato «harrow» significa «erpice» e non più «tempio»?
E si è pronti a scommettere che nell’inglese corrente il significato del toponimo arcaico «Mark» sia di immediata comprensione? Per non parlare degli avverbi e delle interiezioni arcaiche ricorrenti, come «lo», «alas», «verily», «thither», «wither», perfino «whithersoever», ecc., che sono tutte parole anomale per un lettore moderno.
Arcaismi tra sintassi e metrica
Si potrebbe andare avanti a lungo, perché la prosa del romanzo è costellata di arcaismi il cui significato è comprensibile dai lettori colti e tutt’al più intuibile dagli altri, ma che servono appunto a creare l’atmosfera arcaica ricercata da Tolkien.
Spesso anche la struttura sintattica è finalizzata a questo effetto. Un arcaismo rivendicato dallo stesso Tolkien, ad esempio, è la prolessi del complemento oggetto o del verbo rispetto al soggetto, che in inglese – lingua sintatticamente molto più rigida dell’italiano – alza vistosamente il registro di una frase e suona anomala per un lettore medio moderno. Per non parlare della prosa poetica, basata su allitterazioni e metrica, abilmente mimetizzata nel testo.
Quanti che non abbiano compiuto studi classici superiori hanno famigliarità con questi stilemi arcaici? La cosa bella è che nonostante tutto questo, la prosa del romanzo rimane assolutamente fruibile. Come del resto, nonostante le difficoltà e durezze, rimane fruibile quella di Fatica, che cerca di riprodurre gli stessi effetti.
Secondo un utente su YouTube, la nuova traduzione usa un “linguaggio contemporaneo e terra terra” che “rilegge l’opera in senso materialistico”, togliendole così la componente cattolica e spiritualista. Ma quindi, Fatica è troppo difficile, o è “terra terra”? E come si rapporta alla “componente cattolica” di Tolkien nel libro?
Questa è la critica opposta a quella precedente. I critici della nuova traduzione non riescono a mettersi d’accordo se la lingua di Fatica sia troppo alta o troppo bassa. Per risolvere questo dilemma dovrebbero tornare a leggere l’originale inglese e si accorgerebbero che la lingua del romanzo è moderna, scorrevole, a volte perfino terra-terra, ma con delle impennate di tanto in tanto, degli ostacoli, dei costrutti arcaici, parole non immediatamente riconoscibili oppure obsolete, versi poetici disseminati dentro la prosa. Come la traduzione di Fatica, appunto.
Cosa c’entri questo con un fantomatico conflitto materialismo/spiritualismo non lo sapremmo dire. Forse perché Fatica, al contrario della traduttrice storica, non ha usato il termine «anima», dal momento che nel romanzo la parola «soul» non compare se non in un’espressione idiomatica? Questo non è materialismo, è fedeltà al testo. Il sostrato cristiano-cattolico del libro è intatto: le virtù cristiane dei personaggi e la visione provvidenziale e teleologica della storia sono tutte lì. E chi le tocca? Come dice Tolkien nella lettera 142: «l’elemento religioso è infatti insito nella storia e nel simbolismo».
Un altro utente su YouTube afferma che Tolkien avesse come pubblico i bambini e che “termini barocchi e la musicalità servono proprio a smorzare il tono marcatamente epico della narrazione”. In Tolkien ci sono “termini barocchi” adatti ai bambini?
Il Signore degli Anelli non è un romanzo per bambini, ovviamente. Potrebbe sembrarlo forse leggendo il primo capitolo, ma è un effetto ingannevole, perché immediatamente dopo inizia a diventare tutt’altro. A prescindere da questo, si è detto che musicalità e arcaismi (più che barocchismi) fanno parte del repertorio stilistico di Tolkien. Provare a renderli in traduzione è una sfida per esperti. I non esperti non ci provano nemmeno.
La resa degli arcaismi nella traduzione di Ottavio Fatica
Fatica ha cercato di riprodurre l’effetto arcaizzante della prosa del romanzo usando per esempio verbi come «rugghiare» anziché un moderno «ringhiare»; o «aggranfiare» anziché «artigliare»; o ancora «palpeggiare» inteso nel senso meno comune, anziché un più letterale «allungare le zampe» (che però in effetti presenta lo stesso doppio senso).
Oppure quando traduce un’espressione come «for a staring moment» con un ricercato «nella campitura d’un istante», ricorrendo al lessico poetico-pittorico, Fatica lo fa non tanto perché quella che si descrive è un’immagine degna di Hieronymus Bosch, quanto piuttosto perché Tolkien ha scritto l’intero passo in prosa poetica.
Un esempio di arcaismo poetico: le “vagule nubi”
Un esempio analogo è la descrizione in cui Fatica traduce «drifting cloud» con l’allitterante «vagule nubi» (DT, IV. I). «Vagulo» è un aggettivo decisamente fuori corso, un latinismo usato solo in poesia. Sembra davvero gratuito ricorrere a un aggettivo così impegnativo per rendere il semplice «drifting».
Fatica però non vuole rendere soltanto il significato delle singole parole: sceglie il registro della traduzione in base all’effetto che deve avere la frase, facendo qui prevalere quella che il fondatore dei Translation Studies, Eugene Nida, chiamava «equivalenza dinamica». Se la frase originale è poetica e arcaizzante, Fatica usa termini poetici e arcaici che ne restituiscano l’effetto semantico ed emotivo.
Osserviamo l’originale quindi: «rose the broken highlands crowned with drifting cloud». Tolkien compone un endecasillabo, ricorrendo all’allitterazione ro-/bro- e crow/clou, e alla prolessi del verbo rispetto al soggetto (che un qualunque prof d’inglese a scuola segnerebbe con la matita rossa). Fatica la recepisce giustamente come prosa poetica arcaizzante e cerca di renderla in italiano scegliendo un lessico che dia questo effetto. Scelta contestabile, ovviamente, ma comprensibile.
Un altro esempio di resa della simmetria poetica
Nello stesso passo, poco oltre, traduce la frase «the sickly green of them was fading to a sullen brown» con «il verde stinto cangiava in bruno fosco». La logica è la stessa: la frase di Tolkien si basa sulla contrapposizione simmetrica e allitterante tra «sickly green» e «sullen brown» (s-l / r-n), con in mezzo quel verbo «fade» che letteralmente sta per affievolirsi, smorzarsi, qui nel senso di sfumare da una tonalità di colore a una più scura. Fatica mantiene la simmetria sillabica con «verde stinto» e «bruno fosco» e utilizza il verbo vagamente arcaico «cangiare», che è spesso riferito alle sfumature di colore (da cui ad esempio «cangiante»).
In definitiva, anche se non è necessario farsi piacere il risultato – e anche se su certe scelte specifiche anche noi come altri abbiamo le nostre riserve -, non ci sono dubbi che Fatica abbia lavorato per rendere in italiano l’effetto dello stile di Tolkien. Nessuno prima di lui l’aveva mai fatto con questa perizia. Ed è grazie alle sue scelte che stiamo riscoprendo lo stile del Lord of the Rings.
Secondo un altro commentatore, “La nuova traduzione del Signore degli Anelli è un esercizio accademico, non arte e infatti piace quasi solo agli accademici.” Che ne pensate?
Non abbiamo registrato pareri di accademici sulla nuova traduzione. Ad ogni modo è il caso di ricordare che l’autore del romanzo era un accademico, un filologo, uno studioso di lingua e letteratura medievale, per altro in una delle più prestigiose università del mondo. Se qualcuno pensa che non abbia riversato il proprio sapere e la propria esperienza nel suo romanzo più importante si sbaglia di grosso.
Il Signore degli Anelli è un’opera a strati, cioè a più livelli: apparentemente popolare, ma in realtà molto colta. Lo è nelle intenzioni dell’autore, prima di tutto, che ha optato per una forma letteraria popolare – il romanzo -, ma di genere alto e anacronistico – il romanzo epico -, e ha scelto una lingua di facile fruizione, ma provvedendo ad arcaizzarla con abili espedienti da letterato e da linguista. Ha perfino inserito nella prosa alcuni giochetti e ammiccamenti per chi sarebbe stato in grado di coglierli. Si è forse preoccupato di quanti, oltre ai suoi colleghi filologi, avrebbero potuto capire il significato dei termini in Old English che compaiono nel testo? O di quanti avrebbero colto le citazioni dal Beowulf? E gli hapax? E i neologismi?
La traduzione di Fatica ha mostrato il secondo livello, ha fatto capire in italiano che non si tratta di un romanzo per nerd fanatici, ma di un lavoro poetico e linguistico ricercato. E a meno che per qualcuno non sia proprio questo il problema, sarebbe davvero miope non registrarlo come un grande passo avanti dopo decenni.
Vittoria Alliata ha suggerito che la nuova traduzione servisse a “travestire Il Signore degli Anelli in foggia Lgbt in ossequio al nuovismo”. Quanto è queer la nuova traduzione de Il signore degli anelli?
Per quanto riguarda la «foggia Lgbt», non risulta che Fatica abbia tradotto «Merry» con «Gaio» e «Pippin» con «Pisellino»: gli omofobi possono dormire sonni tranquilli.
Se invece intendiamo «queer» nel senso letterale del termine, allora si può dire che la nuova traduzione è in effetti strana ed eccentrica. Leggerla non può non essere straniante dopo che per mezzo secolo si è letta una sola versione, parecchio differente. Quello di Fatica è senz’altro uno stile molto caratteristico, ma tutto si può dire fuorché che sia nuovista. Anzi, quello che gli si imputa è di avere scelto parole obsolete che bisogna andare a cercare sul vocabolario.
L’importanza di avere più traduzioni
Resta il fatto che ritradurre è un’attività salutare. Più punti di vista, più sguardi, diverse prospettive da cui rileggere l’originale.
Se c’è una cosa che connota i classici della letteratura è che periodicamente vengono ritradotti, perché non smettono mai di dirci qualcosa, sono opere vive, che hanno bisogno di essere continuamente rilette. È così da sempre. Recentemente è capitato ad autori classici contemporanei come James Joyce, Francis Scott Fitzgerald, Virginia Woolf, Thomas Mann, tutti ritradotti da esperti traduttori o traduttrici.
All’estero Il Signore degli Anelli era già stato ritradotto in Francia, Germania e Svezia. Alla buon’ora è arrivata la volta anche dell’Italia. Ad ogni modo, l’errore a monte di certi ragionamenti è pensare che una qualunque traduzione possa essere qualcosa di definitivo. Poco più di un mese fa si è tenuto un convegno presso l’Università di Trento, che aveva come tema precisamente Tolkien e la traduzione. Tutti i traduttori professionisti che hanno partecipato – accademici e non – hanno convenuto sul fatto che ogni traduzione è un’interpretazione, una delle tante possibili. Per questo è auspicabile che dopo la traduzione di Fatica ne arrivi una terza e magari una quarta.
Su un blog, un opinionista scrive, in merito alla traduzione di Fatica: “Niente più poesia, niente più afflato mistico-religioso, niente più eroi guerrieri e Valori immortali, ma semplice e puro politically correct.” Quanto è politicamente corretta la traduzione di Fatica?
Quello che noi notiamo è che generalmente la traduzione di Fatica è più fedele al testo originale rispetto alla precedente. Forse bisognerebbe chiedersi quanto ci fosse di «italiano» nell’immagine del romanzo che è stata veicolata per mezzo secolo in certi ambienti nostrani.
Dopodiché qualcuno dovrebbe spiegarci come potrebbe una traduzione fare sparire gli eroi dal Signore degli anelli a meno di non amputarne delle parti.
Cosa ci sarebbe poi di «politically correct» nella nuova traduzione? A noi risulta che gli Orchi rimangono brutti, sporchi e cattivi come in originale; gli Haradrim mantengono intatte le loro fattezze mediorientali e gli Hobbit sono appellati «Mezzomini»; Sauron non si redime; Gollum non viene mandato in una comunità di recupero e Ted Sandyman resta antipaticissimo senza che nessuno indaghi sui suoi traumi infantili (che pure devono essere pesanti); Éowyn non fonda una comune femminista insieme a Rosie Cotton; Bill Ferny è ancora un’odiosa spia da prendere a calci e il suo compare è ancora strabico; Aragorn è l’eroico erede di Isildur che ritorna sul trono.
Quindi di cosa stiamo parlando? Del fatto che qualcuno ci ha tolto gli aulici «Raminghi» per darci dei semplici «Forestali»? O che ci hanno tolto «Gran Burrone» per metterci «Valforra»? A volte il vocabolario può essere impietoso.
Commentatori da gruppi Facebook chiedono che senso abbia tradurre i nomi de Il signore degli anelli in modo diverso non tanto rispetto alla traduzione Alliata-Principe, ma più che altro rispetto alla versione dei film. La rilevanza dei film nell’immaginario tolkieniano dovrebbe in qualche modo influenzare la nuova traduzione dei libri?
Perché dovrebbe? Per quale ragione un traduttore letterario dovrebbe farsi condizionare dal doppiaggio italiano di un film?
Significherebbe stabilire che i doppiatori cinematografici hanno una sorta di preminenza rispetto ai traduttori letterari. Nessun professionista serio accetterebbe una condizione del genere. Quando il Signore degli Anelli è stato doppiato in italiano esisteva una sola traduzione. Adesso ce ne sono due e il direttore del doppiaggio avrebbe la possibilità di scegliere. Se poi si vogliono i nomi «veri» si deve riaprire il Lord of the Rings. Oppure una buona volta decidere di vedere il film in lingua originale.
Altri commentatori affermano che Fatica stia reinventando Tolkien da capo. È vero?
Ogni traduttore in un certo senso deve reinventare l’opera. È obbligato a farlo, perché la traduce da un contesto linguistico a un altro, e nessuno dei termini che sceglierà sarà mai perfettamente coincidente con l’originale.
Come Vittoria Alliata ha reinventato Tolkien?
Qualcuno forse pensa che la vecchia traduzione italiana non avesse reinventato la prosa di Tolkien? Altroché se lo aveva fatto e in maniera molto marcata.
Ad esempio aveva introdotto stilemi di sana pianta, come il raddoppio sistematico dell’aggettivazione e in certi casi perfino dei sostantivi. Aveva appesantito la sintassi con l’aggiunta di frasi e perifrasi, rendendo il testo molto più farraginoso dell’originale. Aveva inserito omonimie arbitrarie come quella tra gli «Stregoni» e il «Re Stregone» o tra «gli Spettri dell’Anello» e lo «Spettro dei tumuli». E aveva messo Gandalf sul lettino del dottor Freud facendogli dire «capii… cos’avevo inconsciamente temuto», e gli Hobbit a Versailles nel 1789 all’«Assemblea Nazionale». E via così.
Come il traduttore debba fare delle scelte scomode
Fatica ha fatto altre scelte, o altre invenzioni, se si vuole chiamarle così, che a molti non sono piaciute, come «spisciolare» o «palpeggiare», ma solo un difetto ottico può farcele percepire come più pesanti di quelle che ci siamo tenuti per cinquant’anni.
Tolkien recupera dalla letteratura il termine medio-inglese «Westernesse»: la precedente traduzione lo rendeva con «Ovesturia», Fatica invece lo traduce con «Occidenza». Sono entrambe invenzioni italiane.
Spesso Tolkien costringe i traduttori a questo. Se gioca con il triplice significato della parola inglese «Ranger» (girovago, guardaboschi, soldato di frontiera) e in italiano non esiste un termine che contenga la stessa sfaccettatura di significato, occorre sceglierne uno e lasciare che il contesto narrativo faccia il resto. La vecchia traduzione «Ramingo» propendeva per una delle tre accezioni, la nuova traduzione «Forestale» per un’altra. Entrambe ne lasciano fuori due, che diventano intuibili solo grazie al contesto, appunto.
Si dice che la traduzione di Fatica sia “politicamente e ideologicamente indirizzata”. È vero?
Indirizzata verso dove? Probabilmente è chiedere troppo che qualcuno, testo alla mano, dimostri certe asserzioni strampalate.
Noi oggi leggiamo un testo in italiano che a tratti ha eco ariostee. Leggiamo la resa montiana dei componimenti poetici contenuti nel romanzo, le descrizioni petrarchesche delle figure femminili, o ancora quelle tassiane delle cariche in battaglia, e più che una qualche ideologia vediamo la poesia e la prosa poetica di Tolkien in una resa italiana di qualità equivalente.
Alla buon’ora.
L’impressione è che certe accuse buttate lì siano la spia di una frustrazione inconscia, cioè che il problema di certi commentatori non sia tanto la traduzione – che è soltanto una traduzione, appunto – quanto le circostanze spiazzanti in cui si sono trovati. Non è facile rendersi conto all’improvviso di conoscere poco o nulla dello stile originale del proprio romanzo del cuore, magari dopo essersene dichiarati esperti appassionati per anni e avere sottolineato per tutto il tempo quanto fosse importante la lingua per Tolkien, e scoprirlo grazie a un tizio come Fatica che non è nemmeno di provata fede tolkieniana. È uno smacco duro da digerire. Nondimeno bisognerà razionalizzare, cioè farsene una ragione.
Qualcuno sostiene che “il sig. ottavio fatica, emerito, con il suo sguardo sghembo e vagamente ipnotico, sia scaturito zitto zitto dall’oscuro ventre di Angband stesso per portare il male ai mortali”. Diteci la verità: Fatica da dove è scaturito?
Ovviamente è uscito dalle fucine di Isengard, in omaggio alla vecchia lettura allegorica Saruman=Stalin.
Nonostante questi ambigui natali, pare però che sia anche uno dei traduttori con la più vasta esperienza sugli autori di lingua inglese tra Otto e Novecento, cioè del periodo precedente e coevo a Tolkien, essendosi cimentato con Melville, Conrad, Kipling, James, Graves, Joyce, Yeats, Auden, e molti altri. Soprattutto con Moby Dick il lavoro di Fatica è risultato importante per scovare una serie di stilemi melvilliani e restituirne la complessità della prosa. Fatica inoltre, benché non avesse letto Il Signore degli Anelli, aveva però precedentemente letto Lo Hobbit, Il Silmarillion e i saggi e racconti contenuti in Albero e Foglia, dunque conosceva la poetica di Tolkien.
Ci è sembrato naturale suggerire all’editore un professionista con questo curriculum, offrendogli la nostra consulenza. E l’editore ha convenuto con questa valutazione. Quindi ha provveduto a comunicare con Orthanc tramite il Palantir conservato nei sotterranei della casa editrice. Ed eccoci qua.
Un commentatore sulla pagina Facebook dell’AIST afferma: “Mi pare evidente che non ci sia stato un editor manco per sbaglio. Un editor certe cose non le avrebbe mai fatte passare”. Quindi Giampaolo Canzonieri in realtà non esiste?
È molto probabile che chi fa certe affermazioni non sappia davvero cosa fa un editor e quali sono le sue competenze.
In questo caso si è trattato di un grosso lavoro da parte di Giampaolo Canzonieri, il socio designato dall’AIST per coadiuvare Fatica (e che per quanto ci risulta è l’unico tolkieniano italiano che abbia parlato della prosa poetica del Signore degli Anelli prima dello stesso Fatica, per la precisione alla Children Book Fair di Bologna del 2017). Sono state inviate al traduttore decine e decine di segnalazioni, proponendo anche le alternative corrispondenti, un buon 80% delle quali è stato accolto. Quello che l’editor non può fare, perché non gli compete, è contestare lo stile del traduttore, soprattutto quando si tratta di un traduttore esperto come in questo caso. Sicuramente non è sua l’ultima parola sulle scelte traduttive.
In un secondo tempo c’è stato l’editing collettivo dei lettori, che ha consentito di raccogliere molte altre segnalazioni e correzioni, per migliorare il testo tradotto già nell’edizione in volume unico. Questo dimostra come una parte del fandom abbia saputo dare una risposta costruttiva, anziché abbandonarsi alla crisi da rigetto. È un dato consolante, significa che ci sono adulti nella stanza, come si suol dire.
Qualcuno dice che AIST significhi “Associazione Italiana di Studi Togliattiani”. È questo il vostro segreto?
Qualcuno sostiene perfino che stia per «Associazione Italiana Stupri Tolkieniani», e probabilmente ce n’è anche di più belle, che adesso ci sfuggono.
Questa «verve apotropaica» è del tutto comprensibile. Una piccola associazione, che non raggiunge nemmeno il centinaio di soci, agile, con ottimi contatti all’estero e un gran lavoro di qualità in Italia, basato su traduzioni, pubblicazioni, eventi pubblici, convegni accademici, consulenza editoriale, in pochi anni ha imposto un passo diverso agli studi tolkieniani italiani. Sarebbe strano il contrario, cioè che chi ha dovuto subire questo cambiamento elogiasse il nostro lavoro.
Per noi i risultati che abbiamo raggiunto sono la dimostrazione che una piccola compagine, puntando sulla qualità dell’azione culturale e sullo studio, può aprire nuovi sentieri e mutare gli scenari di una nicchia culturale. L’AIST non ha maree di followers, non ha mezzi economici, non ha patron politici. Eppure chiunque in Italia si interessi approfonditamente all’universo tolkieniano guarda a cosa facciamo noi. Per sincero interesse o per denigrarci, non ha importanza: il punto di riferimento siamo comunque «noi fortunati pochi». È chiaro che abbiamo una responsabilità ormai, che ci piaccia o no, e dovremo essere bravi a reggerne il peso facendo scelte oculate, capendo dove e come investire le nostre energie che non sono grandi, appunto. È senz’altro una sfida interessante.
Un utente su YouTube afferma: “Tolkien era un linguista se incontra il traduttore lo malmena”. Se mettessimo Tolkien e Fatica su un ring in cui sono ammessi solo i pugni, chi vincerebbe?
Fatica. Pratica il pugilato da anni e si tiene in allenamento costante al sacco.
Se i membri dell’AIST andassero a zappare la terra come alcuni utenti suggeriscono, cosa coltivereste?
Risposta scontata: erba piparina, ovviamente.
Due parole conclusive
Ringraziamo i membri dell’AIST che hanno avuto la pazienza e la bontà d’animo di rispondere con serietà e impegno tanto alle domande serie quanto alle domande poco serie.
Nonostante tutto il flame e le vagonate di odio che hanno ricevuto in questi mesi, hanno ancora tantissima voglia di spiegare, argomentare ed educare. Al loro posto, non credo che mi sarei mantenuta così pacifica.
Speriamo che questa intervista possa chiarire i legittimi dubbi di diversi lettori e lettrici, e che possa a volte farvi anche sorridere. Speriamo che il 2021 porti le discussioni su Tolkien in acque meno bollenti, lasciando tutto il rimanente flame nei commenti a questo articolo.
3 Commento
Norbert
Ciao
una riflessione sulle traduzioni nei film.
Nei film, oltre a dover tradurre i dialoghi, si devono preoccupare anche del labiale e della durata della battuta.
Un rapido “star destroyer” se tradotto correttamente diverrebbe un inaccettabilmente lungo “cacciatorpediniere stellare”
E, analogamente, nella splendida serie “Band of Brothers” ho trasalito sentitendo “Ti hanno trasferito al Battaglione XO” mente il soggetto era stato promosso a “Battalion XO¨ cioè eXecutive Officer [grossomodo vicecomandante] del battaglione. Si è preferito, a mio avviso molto giustamente, scontentare quei pochissimi che sanno chi sia il “battalion XO” ma accontentare i molti che arricciano il naso davanti a battute “fuori sincrono” col labiale
Attenti, quindi, alle traduzioni filmiche!
Ivan Cavini
“L’impressione è che certe accuse buttate lì siano la spia di una frustrazione inconscia, cioè che il problema di certi commentatori non sia tanto la traduzione – che è soltanto una traduzione, appunto – quanto le circostanze spiazzanti in cui si sono trovati. Non è facile rendersi conto all’improvviso di conoscere poco o nulla dello stile originale del proprio romanzo del cuore, magari dopo essersene dichiarati esperti appassionati per anni e avere sottolineato per tutto il tempo quanto fosse importante la lingua per Tolkien, e scoprirlo grazie a un tizio come Fatica che non è nemmeno di provata fede tolkieniana. È uno smacco duro da digerire. Nondimeno bisognerà razionalizzare, cioè farsene una ragione.” Bellissimo!
Daniele Di Rubbo
Ottimo articolo e intervista piacevole e illuminante. Come sempre.
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