Mentre l’80a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia attendeva il suo ultimo lavoro (The Caine Mutiny Court-Martial), si spegneva, all’età di 87 anni, William Friedkin.
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L’inizio
Regista di successo internazionale, ma dalla carriera colma di alti e bassi, William Friedkin si è contraddistinto per la propria ecletticità. È stato capace, infatti, di passare dalla commedia al dramma, fino ad arrivare all’horror, senza disdegnare i documentari. Niente era impossibile, se non forse spiegare al mondo la sua visione. Essa è così radicata nella realtà, eppure a tratti intrinseca di quel misticismo che lo ha più volte avvicinato alla Chiesa Cattolica.
Nel 1965 è scelto per dirigere l’ultimo episodio della terza serie di The Alfred Hitchcock Hour (Off Season, 1965). Fu proprio in quell’occasione che il grande regista lo apostrofò perché non indossava la cravatta mentre dirigeva!
William Friedkin si affaccia ad Hollywood
Ma la sua carriera comincia davvero nel 1967 quando dirige il Musical di Sonny & Cher Good Times.
Con un inizio del genere, non sorprende che nel 1971 che gli venisse offerta la possibilità di dirigere The French Connection (“Il braccio violento della legge”). Il film racconta la storia di due poliziotti induriti dalla strada. Il loro obiettivo è quello di fermare un trafficante di droga che dal porto di Marsiglia introduce la sua merce a New York.
Con Gene Hackman nei panni di Jimmy “Popeye” Doyle e Roy Scheider in quelli di Buddy Russo, Friedkin crea un film reale nel suo raccontare la brutalità della lotta contro i narcotici. Introduce, inoltre, un villain diverso da quelli visti fino ad adesso in un film d’azione. Fernando Rey con il suoi Alain Charnier non è solo la nemesi di Hackman, ma anche tutto ciò che un poliziotto di strada non sarà mai. Educato nei modi, elegante nel vestire, tutto si potrebbe pensare di lui ma non il fatto che sia uno spietato commerciante di morte.
Il film comincia lentamente, in una Marsiglia ancora addormentata ed impone un ritmo in crescendo che culmina con uno degli inseguimenti in macchina che hanno fatto la storia del cinema. Una corsa che toglie il fiato e costringe lo spettatore a ballare sulla sedia. L’adrenalina scorre. Il sangue anche. La violenza la fa da padrona come succede spesso nel cinema degli anni settanta. Eppure il film è anche una storia personale, di come la violenza cambia gli uomini e la droga il viso stesso di una nazione.
Il film vince cinque premi Oscar, tra cui quello per migliore attore che va ad Hackman, il premio per il miglior film e quello alla regia che va a Friedkin.
Una curiosità sulla scena appena citata, Friedkin decise di non fare bloccare il traffico per le vie di New York. Tutto quello che si vede sullo schermo è un mix perfetto tra il traffico vero della città ed il lavoro di scenografi e stuntmen che fu perfetto al millimetro. Solo così si poté evitare la tragedia.
Finalmente William Friedkin raggiunge la Fama!
Solo due anni dopo William Friedkin dirige il film per cui forse più di ogni altro è ricordato: The Exorcist (“L’esorcista”).
Uno dei film horror più iconici di tutti i tempi. Diventa il capostipite di quel filone sulla possessione demoniaca che apre le porte alla discussione sulla malattia mentale, fino ad allora tabù nel cinema.
Il film tratto dal capolavoro di Peter Blatty è ancora oggi uno dei capisaldi del genere, ma che cosa lo rende così speciale? Rivisto anche a distanza di anni è innegabile che scateni emozioni forti, siano esse legate ad un credo religioso o alla paura atavica di perdere il controllo sulla propria mente.
Ora come allora è una montagna russa di emozioni. La sua forza, però, sta anche e soprattutto nell’essere riuscito a creare personaggi che piacciono, nei quali lo spettatore può rispecchiarsi senza paura di essere giudicato. Per intenderci, sono tutti personaggi che ad oggi non verrebbero “cancellati” dalla purity culture che sta dettando legge nel mondo dell’intrattenimento con risultati a dir poco disastrosi.
Lo stretto rapporto tra Regan (Linda Blair) e la madre Chris (Ellen Burstyn) costituisce le fondamenta emotive per un film corale e straziante in cui ogni attore è devoto al proprio ruolo. La possessione avviene a poco a poco, mentre Chris cerca di fare di tutto per capire cosa stia succedendo alla figlia, fino a quel momento una normale adolescente. La porta da ogni possibile dottore, fino alla decisione lacerante di sottoporla ad una visita psichiatrica. Non dimentichiamo le stigma sulla malattia mentale che Hollywood ha aiutato a perpetrare. Pazuzu, demone antico e vendicativo, prende il controllo sulla mente ed il corpo della sua vittima.
È a livello di immagini che Friedkin ottiene l’effetto desiderato, quello che porta lo spettatore a saltare sulla sedia o a chiudere gli occhi. Resterà sempre memorabile come Regan scende le scale nel momento in cui diviene chiaro che c’è qualcosa di soprannaturale che sta accadendo sotto gli occhi di tutti.
Il film riceve dieci candidature all’Oscar e riesce a portarne a casa due, tra cui quella per la migliore sceneggiatura non originale. Un bel risultato per un genere snobbato ancora oggi, soprattutto di “chi si intende” di cinema e crede che l’horror sia un genere di serie B.
William Friedkin, quasi un profeta
Dei morti si raccontano solo i successi. Questa volta però non è giusto! Forse anche perché il film Sorcerer (“Il salario della paura”, 1977) è il film che parla di quello che Hollywood non è più!
Il film nasce come reinterpretazione (non un remake dunque N.d.R.) del thriller francese The Wages of Fear di Henri-George Clouzot. Friedikin ha sempre considerato Sorcerer il film che ha amato di più tra tutti quelli che ha fatto. È anche, però, un flop annunciato. Questo perché esce nelle sale nello stesso weekend in cui uscì A New Hope primo film della trilogia originale di Star Wars.
Il fatalismo che impregna tutto il film, così come l’incessante pioggia tropicale ed il sudore che gli attori non smettono di traspirare, lo rende forse il film più Anni ’70 di tutto il decennio con il suo non richiedere risoluzioni narrative. Tanto meno quelle felici…
Il fulcro della trama è la storia di quattro criminali, provenienti da diverse parti del mondo, che accettano la missione suicida di trasportare nitroglicerina su una strada accidentata, in cambio della promessa di amnistia e cittadinanza nella cittadina petrolifera di Porvenir in Colombia. Cosa potrebbe mai andare storto?
Il budget di 15 milioni di dollari, astronomico per quei tempi, e concesso solo per il successo planetario ed inaspettato dell’Esorcista, diviene presto di 22 milioni. Questo a causa dei ritardi portati dal tempo imprevedibile. Le riprese si fermarono più volte per la costruzione di strade nella giungla della Repubblica Dominicana. Inoltre buona parte del cast contrasse la malaria e altra malattie tropicali.
Non aiutò poi la decisione registica di Friedkin di puntare tutto su un realismo documentaristico per girare il film. Cosa che anni dopo lo stesso regista ammise di rimpiangere. Se avesse potuto tornare indietro avrebbe dedicato il budget ad un cast più internazionale con protagonista Steve McQueen.
Senza una trama chiara ed un cast che potesse richiamare spettatori al cinema, il film incassò solo 9 milioni di dollari. Un flop totale. Un film che oggi non vedrebbe la luce.
Sorcerer pone la domanda esistenziale su cosa spinga i protagonisti, seduti in un cadente pub in una ancor più cadente città in mano alle compagnie petrolifere straniere che non sanno fare altro che distruggere. Sono alla ricerca di una redenzione o davvero non hanno nulla da perdere?
L’intero film è permeato dal senso di incombente distruzione, reso evidente dalle atmosfere rarefatte e realistiche che sono ben lontane dall’uso eccessivo degli effetti speciali. Eppure, questa apparente immobilità porta ancora una volta ad una delle scene d’azione più al cardiopalma che il cinema ricordi. Il camion che, con il suo pericoloso carico, cerca di superare un ponte di corde durante una tempesta.
In un mondo diverso, dove si riconosce il talento ed i film che fanno scuola non si devono rivalutare e riscoprire, Sorcerer sarebbe un esempio da sempre. Invece, insieme a altri progetti che hanno incontrato lo stesso fato avverso, come Heaven’s Gate di Michael Cimino, New York, New York di Martin Scorsese e One from the Heart di Francis Ford Coppola segna la lenta agonia di uno dei periodi più prosperi e creativamente fertili della storia di Hollywood.
Sorcerer e gli altri film erano complessi. Moralmente ambigui e mantenevano il coraggio delle proprie convinzioni e scelte artistiche. L’antitesi di quello che avviene oggi nel cinema di Hollywood, saturato da film postmoderni sui Supereroi e da remake senza fine.
L’unicità di Sorcerer consacra Friedkin al firmamento dei grandi artisti che non scendono a compromessi con l’Industria e le sue regole.
Titoli di coda
Non è un addio, ma un arrivederci. Fai buon viaggio William e, se puoi, tieni un posto per noi in prima fila!