Tradurre le soggettività genderless è un impegno fondamentale.
Traduzione e introduzione di Saura Effe – Laura Fontanella – ad un articolo di Matteo Lupetti.
Qui potete trovare l’articolo originale.
! DISCLAIMER !
In questo articolo si usano diversi simboli tipografici per dare voce ad esistenze che, altrimenti, sarebbero normalizzate entro un linguaggio che non solo non le rappresenta ma che, anzi, le evita apertamente. Troverete, quindi, asterischi, schwa, chiocciole e quanto altro possa garantire una differenziazione e una visibilità a tematiche, soggetti, identità, esistenze. Se il fatto di includere linguisticamente qualcun@ ti irrita, non proseguire nella lettura. La tua presenza qui non è gradita.
Introduzione al mondo ludico e traduzione di genere
Qualche giorno fa sono incappata in un interessante articolo scritto in lingua inglese da Matteo Lupetti, giornalista indipendente, recensitorə videoludic@ e di corrente marxista, per Gayming Magazine, rivista online dedicata ai giochi. L’articolo, dal titolo “Final Fantasy IX, Quina Quen and translating the genderless“, mi ha immediatamente galvanizzata.
Mi occupo, infatti, proprio di questo: della intersezione tra studi di genere e studi traduttologici.
Sebbene si pensi comunemente che la traduzione sia un’attività di mera trasposizione da un codice all’altro, essa ha, invece, intessuto legami con altre discipline, espandendosi, svolgendosi in nuovi rami, producendo nuovi saperi.
La traduzione ha cominciato ad essere intesa come una disciplina culturale durante gli anni ’80, grazie a studiose femministe come Susan Bassnett che teorizzarono, per la prima volta, i fondamenti del cosiddetto “Cultural Turn”, della svolta culturale (Bassnett, Lefevere: 1998). Prima di allora, la traduzione era un’attività di poco conto, svilita e invisibilizzata – e, per questo, lasciata in mano alle donne. Le donne, mediante la traduzione, potevano sentirsi parte del mondo letterario e intellettuale – appannaggio degli uomini – senza, in realtà, farne davvero parte. (Francellini: 2014).
Secondo questa nuova scuola di pensiero, la traduzione consiste in un processo ben più complesso della trasposizione da un codice all’altro: si tratta, cioè, di una riscrittura, di una negoziazione, di un’azione politica che ha per requisito il comprendere, il conoscere, l’interrogare sé stessi e l’alterità culturale e sociale a cui ci si sta rivolgendo. La traduzione, intesa come strumento non solo linguistico ma culturale, diventa una produzione consapevole e attiva – se non addirittura attivista: chi traduce deve essere consapevole dei propri privilegi sociali, economici, linguistici, di genere, di orientamento sessuale e di razza; chi traduce deve essere consapevole della propria posizione nel mondo, della geografia delle proprie e altrui differenze (Ergun, Castro: 2017).
Quando si parla, in quest’ambito di traduzione e di studi di genere assieme, bisogna tenere a mente, quindi, molti aspetti: innanzi tutto, è necessario avere uno sguardo critico al testo in esame, leggerlo alla ricerca di soggettività che potrebbero essere state “sacrificate”, leggerlo interrogandosi su quali aspetti potrebbero essere stati omessi.
Annarita Taronna, altra grande studiosa dei “gender studies in translation”, ha spesso esemplificato queste teorie attraverso diversi estratti dalla prima traduzione italiana dell’Orlando di Virginia Woolf. L’Orlando, personaggio che incontriamo e che decliniamo nel testo come essere maschile, ad un certo punto, si trasforma in una donna. Nel passaggio in inglese, che vi riporto, compare, nel mezzo della trasformazione, un “they” – pronome di terza persona plurale – atto a simboleggiare una contemporaneità, un momento in cui, Orlando è tutt’e due, uomo e donna, maschile e femminile assieme, fusi in un unicum, fusi in una creatura queer, altra, indefinita, androgina.
“The change of sex, though it altered their future, did nothing whatever to alter their identity. Their faces remained, as their portraits prove, practically the same.”
“Il mutamento di sesso poteva mutare il future dei due Orlando, ma per me null’affatto la loro identità. I due visi, rimasero, come lo provano i ritratti, perfettamente simili”.
Come si evince, la traduzione italiana di Alessandra Scalero del 1933, (Taronna: 2006) il “their”, possessivo per “they”, loro, viene tradotto in un dualismo che manca completamente nel testo fonte. Riporto questo esempio di immediata comprensione per mostrare quanto, in realtà, sia complesso il lavoro del tradurre – specie se si vuole, in qualche modo, rendere giustizia a quelle identità e soggettività che, altrimenti, verrebbero cancellate senza neanche accorgersene.
È necessario trovare nuove costruzioni, avere fantasia, inventare, insistere.
Per questa ragione, l’articolo di Lupetti mi è sembrato interessante: va esattamente a cogliere una ulteriore connessione, quella tra il mondo ludico e la traduzione di genere, connessione su cui avremo ancora molto da dire, molto da approfondire.
Andando esattamente in quella direzione, qui di seguito, la traduzione dell’articolo di Matteo Lupetti. Se siete interessati al linguaggio genderless e ad un approfondimento su come comportarsi quando nel gioco di ruolo si parla di persone non binarie, vi consiglio di leggere questo articolo.
Traduzione dell’articolo Final Fantasy IX, Quina Quen and translating the genderless
Sebbene Final Fantasy IX, della casa di produzione Square, sia uscito in Giappone vent’anni fa, negli anni successivi, ho continuamente ripensato ai suoi dettagli, al suo mondo fiabesco, all’eccentricità e ai suoi abitanti. Fino a poco tempo fa, però, non avevo idea che uno dei suoi personaggi principali, Quina Quen, fosse esplicitamente non-genderizzat@[1].
In realtà, Quina Quen sono[2] uno dei primi personaggi videoludici a sconvolgere il binarismo di genere e le sue definizioni.
Il testo originale Giapponese non rivela mai il genere di Quina Quen: il loro aspetto è tradizionalmente femminile ma, allo stesso tempo, Quina Quen non possono indossare attrezzature esclusivamente dedicate ai personaggi femminili – sono considerati maschi per quanto riguarda le meccaniche di gioco in qualche modo legale al genere dei personaggi.
In questo articolo mi riferirò a Quina usando i pronomi “they/them” – loro, in accezione di pronome personale soggetto e oggetto – nonostante i pronomi di Quina, nella localizzazione americana, non siano gli stessi e possano generare confusione: in american english, il gioco usa i pronomi “he/his”, rispettivamente “lui/suo” – passando poi al’’utilizzo di “s/he” – “leui”[3], diremmo. «Final Fantasy IX è stato il mio secondo progetto a Square» mi dice Brody Phillips, su LinkedIn.
«Il mio primo è stato Legend of Mana. Su Final Fantasy IX, ero uno dei tre traduttori. La struttura dei file di testo ci rese relativamente facile dividere il lavoro di traduzione in base alla posizione in-gioco.
C’era così tanto lavoro da fare che ingaggiammo anche due redattori affinché controllassero tutto. Ma a differenza dei titoli successivi, come Final Fantasy X, non c’era parlato nelle scene tagliate, quindi non abbiamo mai dovuto usare uno studio di registrazione per le voci fuori campo in inglese.»«Quando iniziai a lavorare lì, c’era già un altro team interno. Avevano già lavorato su Final Fantasy VIII e su Parasite Eve – assieme ad altri titoli.» continua Philips. «Ricordo che molti traduttori che traducevano dall’inglese verso altre lingue europee, a contratto determinato, avevano già terminato le loro traduzioni per Final Fantasy VIII e se ne stavano già andando. Invece di tradurre direttamente dal giapponese, la traduzione nelle diverse lingue europee del gioco si basava su quella inglese. Questo avvenne da una parte per via dei costi e dall’altra per questioni di disponibilità: il numero dei traduttor* che sapevano l’inglese era ovviamente più alto rispetto quello di coloro che sapevano il giapponese.»
«Per quanto riguardava il loro genere, la traccia dialogo di Quina era molto vaga…» Risponde Philips quando gli domando cosa ricorda del personaggio. «Altri personaggi si riferivano a Quina con il genere あいつ (aitsu) invece che con gli standard 彼 (kare) e 彼女 (kanajo). Essendo la pronominazione molto vaga, volevamo che rimanesse tale. Guardandomi indietro con il senno di poi, penso fosse un po’ pesante da interpretare per ile lettor*. A differenza dell’inglese e del giapponese, le altre lingue europee hanno, per ogni sostantivo, un genere specifico; immagino sia stato tutto molto strano sia per i traduttori e le traduttrici, che per le giocatrici e i giocatori.»
Phillips ha ragione: in italiano, la mia prima lingua, ogni sostantivo è declinato per genere. Le nostre sedie sono femmine[4], i nostri libri sono maschi. Non abbiamo niente che somigli al neutro “theythem” – “loro” – né qualcosa che ci lasci una maggiore libertà come per il pronome “it” –neutro singolare.
Alla nostra lingua non resta che lottare per esprimere lo spettro mutevole del genere.
A tal proposito, vi suggerisco di leggere questo breve saggio in cui si parla di come Fabio Bortolotti ha gestito la traduzione italiana dei pronomi non binari di Neo Cab. > https://www.outcast.it/home/il-gender-e-la-traduzione-di-videogiochi.
Nella localizzazione italiana di Final Fantasy IX, ci si riferisce a Quina usando pronomi femminili e attraverso l’uso del termine “donna”; la loro natura non binaria, flessibile o perfino senza sesso è stata perduta. La localizzazione di Quina è stata un vero e proprio casino globale.Anche il personaggio è un casino. Nel mondo tragicamente devastato dalla guerra di Final Fantasy IX, Quina incarnano lo stereotipo del personaggio comico e grasso-fobico, del personaggio lì posto per darci sollievo. Nelle illustrazioni di Amano, Quina Quin sono raffigurate come un clown, nel gioco appaiono (e parlano) come la caricatura di un cuoco cinese e inizialmente si uniscono al party, al gruppo, perché il loro maestro, Quale, altrettanto privo di genere, vuole che diventino indipendenti e che migliorino le loro abilità culinarie scoprendo e assaggiando nuovi cibi.
Per loro, mangiare è una meccanica di gioco: Quina Quen rappresentano il “mago blu” o “blue mage” di Final Fantasy IX; sono coloro che accrescono il proprio potere imparando nuovi incantesimi dai nemici combattuti e quelli mangiati durante le battaglie. La loro abilità di “Frog Drop”, “Kero Shot” nella localizzazione italiana, è una delle più forti in gioco (può raggiungere 9.999 punti di danno). Tuttavia, per raggiungere questa abilità, Quina devono salire di livello, catturando e mangiando rane nelle paludi. Eppure, la loro caratterizzazione è ben più profonda: sono bizzarre, inquietanti e fantasiose, sono spinte dalla curiosità e dalla ricerca del piacere e, durante il loro viaggio, crescono, imparando a prendersi cura degli altri e delle altre, oltre che di loro stess*.
La scoperta della perdita di questo aspetto di genere non conforme nel mio Final Fantasy preferito ha rispecchiato in pieno la mia messa in discussione di quel genere che anche io, un tempo, avevo dato per scontato.
Certo, la natura di Quina è diversa dal mio non-binarismo: Quina Quin sono biologicamente privi di genere – o almeno non classificabili o ascrivibili da un punto di vista umano – perché appartengono alla specie fantasy della tribù di Qu; collateralmente, deduciamo che in Final Fantasy IX, il genere è ancora una questione biologica. Ciò nonostante, il loro genere non viene mai indagato o deriso dagli altri personaggi. Final Fantasy IX ci suggerisce, almeno, d’immaginare altro aldilà del binarismo di genere e la storia della sua localizzazione dimostra che, a volte, il problema principale che dobbiamo affrontare quando immaginiamo, è proprio quello della barriera linguistica.
[1] Senza genere, non genderizzatao. Senza elementi che ne potessero ricondurre la figura ad un genere specifico.
[2] Di fronte a Quina Quen, soggetto della frase, uso “sono”, verbo essere al plurale riconoscendo loro una validità non binaria e non duale.
[3] “She” e “He” sono i pronomi soggetto di terza persona singolare. Sì, quelli a cui, al verbo al tempo presente, si deve aggiungere la –s. Il primo corrisponde al femminile “Lei”, il secondo al pronome “Lui”. Dalla loro fusione, ho creato “leui”, pronome che spero ben rappresenti la queerness di “s/he”.
[4] Lupetti scrive “chairs are girls”, intendendo che sono femmine, sostantivi femminili; scrive “books are boys”, invece, intendendo che libri, in Italiano, è sostantivo maschile.
Conclusioni e Bibliografia
Matteo Lupetti ci rimanda ad un compito ben preciso: il tradurre in modo genderless. Ci invita a guardare al di là dei confini di genere e spaziali, ci invita ad indagare sotto la superficie delle cose, dei testi, alla ricerca di identità che, come abbiamo visto, possono svanire in un battito di ciglia – non solo in letteratura: anche nei videogiochi, nei Role-playing Games, nei Boardgames, nel mondo ludico tutto.
Bibliografia, in ordine di apparizione nel testo
Susan Bassnett, André Lefevere, 1998. Constructing Cultures: Essays on Literary Translation, Multilingual Matters LTD
Carla Francellini, 2014. Women in translation. Donne in traduzione, Artemide Edizioni
Emek Ergun, Olga Castro, 2017. Feminist translation studies: Local and transnational perspectives, Routledge
Annarita Taronna, 2006. Pratiche traduttive e gender studies, Aracne edizioni
Altre letture sull’argomento
Laura Fontanella, 2019. Il corpo del testo. Elementi di traduzione transfemminista queer, Asterisco Edizioni
Marta Palvarini. 2019. Fuori dal dungeon. Genere, razza e classe nel gioco di ruolo occidentale, Asterisco Edizioni
Deborah Saidero, 2013. La traduzione femminista in Canada, Edizioni Forum