Lo snobismo con cui critica e opinione pubblica hanno (quasi) sempre trattato il fantastico ha causato un effetto uguale-contrario. La cultura pop ha eretto roccaforti e patroni, tanto che il grado di studio e indagine riservato all’universo nerd (in senso lato) ha raggiunto livelli che trascendono la passione – chiunque si sia dedicato a video approfondimenti di Dark Souls, sa di cosa parlo. La profusione di studi tolkieniani è andata, giustamente, ben oltre i video approfondimento e i blog di opinione. Ogni pagina, lettera, riga e annotazione di Tolkien è stata sviscerata al punto da mettere in soggezione chi, come me, si è sempre limitato a godersi l’universo di Arda con l’ingenuità di chi vuole godersi una storia. Si ha l’impressione che il racconto non basti a se stesso: che debbano venir fuori dal cilindro alibi filosofici e giustificazioni sociologiche per nobilitarlo, come se il tribunale dell’opinione generalista fosse sempre pronto a battere il martelletto e rispedire quel che amiamo nel dimenticatoio perché “per bambini” o “non abbastanza serio”.
Faccio questa premessa perché credo nelle storie. Credo bastino a loro stesse, quando raccontate con sincerità e magia elfica (ne parleremo a breve). Quel che segue non vuole (o non vorrebbe) essere uno dei tanti, sterili approfondimenti critici per nobilitare Tolkien. Non ha bisogno della mia patente per essere grande e non sarei comunque la persona adatta. Prendete il pezzo per quel che è: una nota di curiosità sul Bene e il Male nel mondo della Terra di Mezzo, che nulla toglie o aggiunge all’incantesimo del Signore degli Anelli. La scrittura è magia. Vediamo se mi riesce ancora qualche trucco.
Introduzione e pillole di Storia di Tolkien
Nella lettera 267 indirizzata al figlio Michael, Tolkien racconta di una giornata passata con Robert Graves, uno dei maggiori poeti inglesi del secolo scorso. Lo definisce tanto brillante quanto “asino”, e Graves certamente era un tipo bizzarro, che spaziava dalla mitologia alla magia druidica alla distopia – leggetevi quel gioiello di romanzo che è Sette giorni tra mille anni. Dopo una nota su Ava Gardner, che Graves gli ha presentato senza che Tolkien avesse idea di chi fosse, la lettera divaga su opinioni di costume e moralità nell’ambiente ecclesiastico in cui Tolkien precisa come: “nel corso delle mie peregrinazioni ho incontrato preti sgradevoli, stupidi, irrispettosi, presuntuosi, ignoranti, ipocriti, pigri, ubriaconi, insensibili, cinici, meschini, avidi, volgari, altezzosi, e anche (immagino) immorali; ma per me un padre Francis ha più importanza di tutti loro messi assieme”.
È arcinoto che Tolkien fosse un fervente cattolico. Il padre Francis cui fa riferimento era stato suo tutore presso il Birmingham Oratory, l’istituto in cui Tolkien era cresciuto dopo la morte della mamma, nel 1904. Il Birmingham Oratory era stato fondato da John Henry Newman, cardinale convertito al cattolicesimo (e recentemente fatto santo). Newman era stato un eminente teologo e filosofo, nonché intimo amico del tutore di Tolkien. Tra le massime influenze di Newman c’era Sant’Agostino, in particolare l’ideale lotta tra la “Città di Dio” e i poteri delle tenebre.
La lotta tra Luce e Ombra
Se siete sopravvissuti a questa introduzione storica, il resto è tutta discesa. I più attenti avranno drizzato le antenne dopo aver letto di lotta tra luce e ombra. “Ecco! Tolkien è stato al Birmingham Oratory; il suo tutore era amico di uno studioso di Agostino; ne consegue che Tolkien ha scritto Il Signore degli Anelli ricalcando la dottrina agostiniana! Lo sapevo, l’Opera di Tolkien è pregna di simbolismi e arcani nascosti!”
Andiamoci cauti – anche se, nel corso della Storia, le idee vanno dove vogliono e ricorrono sempre nei posti più inaspettati. Certamente l’educazione cattolica di Tolkien ha influito su di lui – nel suo studio, per esempio, teneva una vecchia copia annotata della Somma Teologica di San Tommaso. E altrettanto certamente è strano che un convinto cattolico si dilettasse di elfi, nani e hobbit. Come si unisce la dottrina agostiniana della lotta tra Bene e Male con la magia elfica? E cosa si intende con Bene e Male, in Agostino? Tolkien si è davvero “ispirato” a lui per creare il suo universo?
Una sera del 1931, passeggiando lungo l’Addison Walk a Oxford, Tolkien discuteva di miti, fiabe, mostri e folletti con un amico. Questo amico non capiva come la fede cattolica di Tolkien si incastrasse con una visione magica (o superstiziosa) del mondo. Tornato a casa, Tolkien scrisse una poesia dedicata a lui, Mythopoeia. Due versi:
Se tutte le fessure del mondo colmammo
con Elfi e Folletti, se creare osammo
gli Dei e le loro magioni dal buio e dalla luce
e seminammo semente di draghi – ciò era (a torto o ragione)
nostro diritto. Questo diritto non è decaduto:
ancora creiamo secondo la legge che così ci ha voluto.
L’amico in questione era C.S. Lewis. Qualcuno si ricorderà di lui per una cosetta come Le Cronache di Narnia. Lewis, Tolkien e altri bazzicavano i pub di Oxford riunendosi in un gruppo noto come Inklings. Tra loro spiccavano anche autori meno conosciuti, come Charles Williams, i cui scritti si guadagnarono l’appellativo di “thriller fantastici” dallo stesso Tolkien – come per Graves, mi permetto di suggerire la lettura de Il Posto del Leone di Williams.
Quella degli Inklings fu una fucina che diede vita a una buona fetta del fantastico come lo conosciamo oggi, anche se Tolkien ebbe sempre da ridire sulla “poca coesione” del mondo narrativo di Narnia. Lewis non era credente, ma dopo la poesia che Tolkien gli dedicò iniziò a riconsiderare le sue posizioni in merito alla fede. A sua volta professore a Oxford, viveva in una casetta con il fratello Warren, entrambi scapoli morigerati. Dopo la conversione, che documentò in una parziale autobiografia intitolata Surprised by Joy, Lewis iniziò a dispensare lezioni pubbliche su Dio, fede, annessi e connessi. Già nel ’40 aveva scritto un saggio, The Problem of Pain, in cui sosteneva che il dolore altro non era che lo scalpello con cui Dio tira fuori da noi i veri uomini.
Un incontro fondamentale
La sua vita cambiò il giorno in cui conobbe l’autentica Joy, una poetessa americana, Joy Davidman, di cui si innamorò. Finora aveva parlato di amore solo per teorie e sommi capi, divagando su passaggi Biblici e metafisica. La relazione con Joy fece scendere Lewis dalle nuvole. L’amore era lì, davanti a lui, in carne e ossa. La gioia come la sofferenza. Poco dopo le nozze, Joy si ammalò di tumore e morì. Lewis cercò di spurgare il veleno del lutto in un
libricino, Diario di un Dolore. Tra quelle righe, Lewis sperimenta il silenzio di Dio. Il dolore della morte di Joy era diverso dal “male” generico delle sue conferenze.
Dall’alto di un pulpito, sotto le luci e gli occhi di una fitta platea, puoi pontificare di come il bene vinca sempre sul male, di come, anche se non lo vediamo, ci sia un significato a tutto, un piano divino. Poi, da un giorno all’altro, ti trovi tra le braccia il cadavere della donna che ami e un pugno di ricordi da riordinare su carta. Parafrasando Stephen King ne La Storia di Lisey, nessuno si innamorerebbe se conoscesse il dolore della perdita. È questo il Bene di cui parla Dio, in Sant’Agostino? È questo il Bene, tanto nella realtà quanto nella Terra di Mezzo?
Alle origini del Male
Nel Signore degli Anelli, durante il Concilio per decidere che farne dell’Unico Anello, Elrond pronuncia una frase arcinota: “For nothing was evil in the beginning. Even Sauron was not so”. Niente era malvagio, in principio. Perfino Sauron non lo era. Se niente era malvagio, nemmeno l’Oscuro Sire, allora da dove viene il male?
Per i pochi che non lo sanno, Il Signore degli Anelli è l’ultima propaggine dell’universo narrativo di Tolkien, un mondo che iniziò a creare da ragazzo, cresciuto con lui per associazioni, invenzioni, studio delle lingue e, soprattutto, fantasia. “Fantasia” per Tolkien non è un termine neutro e quel “in the beginning” in bocca a Elrond ha più significato di quanto si creda. Quell’inizio remoto, in cui anche Sauron, l’arcinemico del Signore degli Anelli, era buono, non è un passato fumoso né tantomeno generico. Esiste uno sfondo di storie e miti che Tolkien ha tratteggiato in un corpus di scritti ora pubblicati sotto il nome di Silmarillion, più mucchi di racconti ritrovati, incompiuti eccetera.
Un Universo complesso
Questo universo narrativo in cui niente era malvagio in principio non era tanto una creazione pura, quanto una “sub-creazione”. Come dice lo stesso Tolkien nella poesia di sopra, è diritto dell’uomo riempire i vuoti del mondo di creature fantastiche. È diritto dell’uomo creare in maniera simile a quanto Dio ha fatto col nostro mondo. Naturalmente l’uomo non è Dio, se mai è fatto a sua immagine, per chi crede, ma può comunque ricorrere a una sotto-creazione, un universo secondario all’interno dell’universo reale. In una intervista ripubblicata recentemente sul primo numero di Heavy Metal, dovendo definire il mondo di Arda, Tolkien dice che non si tratta di fantascienza, cioè un pianeta lontano dal nostro o un universo separato da quello conosciuto.
È più che altro il nostro mondo “a un diverso livello di immaginazione” (che geniaccio, eh?). In un saggio sulle fiabe, che trovate ne Il Medioevo e il Fantastico, Tolkien difende l’idea di fantasia. Quasi tutti gli scrittori “rispettabili”, quelli da premio letterario, per capirsi, dicono che ciò che conta è la realtà, gli “studi fenomenologici” o “psicologici” del reale; che l’immaginazione serve solo quando rielabora un “dato reale”, mentre la fantasia è un perdersi nei propri sogni, una fuga dalla realtà. Poco ce ne viene a ricordare agli eminenti Autori (con la A maiuscola, mi raccomando) che non bisogna confondere la fuga del disertore con quella del prigioniero. O che gli unici contrari alle evasioni sono i carcerieri.
Tolkien e Fantasia
Probabilmente continuerebbero a insistere anche davanti alla umile argomentazione di Tolkien secondo cui la fantasia è un incantesimo elfico. Fantasticare non significa perdersi nell’illogicità. Vuol dire edificare un mondo secondario coerente. Chiunque può scrivere una storiella in cui il sole è il sole. Immaginate (che bella parola, vero?) invece di dover scrivere un racconto in cui il sole è verde. Immaginate di dover rendere il racconto credibile. Di mantenere la credibilità dall’inizio alla fine, in modo che il lettore, una volta entrato nel vostro mondo in cui il sole è verde, non scuota mai la testa dicendo “aspetta, qua i conti non tornano…” o non si distragga o non dubiti.
Mettete questi due mondi sui piatti di una bilancia, quello in cui il sole è normale e quello in cui è verde: quale pensate sia più difficile da scrivere? Da creare (o sub-creare)? Da rendere credibile e coerente e accogliente? Quanta arte elfica è richiesta, quanta magia e impegno e dedizione sono necessari per mantenere attivo l’incantesimo? La fantasia non è una fuga dalla realtà. È la condizione attraverso cui si può creare una nuova realtà condivisa in cui tutti, indipendentemente dalle differenze individuali che tanto ci ossessionano, possiamo entrare.
Worldbuilding e altre amenità
Tolkien aveva quest’immagine incastonata dentro. Un mondo fantastico cui dare luce. Pensava di regalare all’Inghilterra una mitologia, invece ha regalato al mondo un altro mondo, o sottomondo, più piccolo forse, ma non meno vero. Ogni mondo “vero”, però, inizia con una caduta, proprio come il nostro – ricordate quel fattaccio nel giardino dell’Eden? E un paese delle fate innocuo è falso in tutti i mondi, a qualunque livello di immaginazione.
Dio non può aver “creato” il male, altrimenti che razza di dio sarebbe? Chi ha bazzicato i romanzi di Valerio Evangelisti (se non l’avete fatto, correte dopo una dovuta penitenza) avrà incontrato qua e là la setta del Manicheismo. Il Manicheismo era un’eresia secondo cui il Male esisteva come sostanza opposta al Bene. Quando dico sostanza, intendo un male reale, tangibile, materiale. Agostino stesso aderì al Manicheismo, prima di convertirsi al Cristianesimo. Dopo la conversione, Agostino avversò la fede precedente con una nuova idea che restituiva la specificità del peccato all’uomo. Semplificando all’eccesso: tutti sono buoni, in partenza. Sono le scelte che facciamo a determinare una diminuzione del bene. Il male in sé non esiste se non come assenza di bene. Un vuoto, una corruzione. Non solo: poiché l’esistenza stessa è bene, in quanto creata da Dio, fare il male diminuisce l’esistenza stessa.
La filosofia dietro il male
È interessante notare una filosofia simile nel Signore degli Anelli. Gli spettri dell’anello, per esempio, sono poco più che fantasmi. Hanno venduto l’anima all’Oscuro Sire e la loro forma corporea ne ha risentito. In un certo senso, esistono di meno. Lo stesso si può dire di coloro che indossano l’Unico Anello. Diventano invisibili. Entrano in un mondo di ombre. Si fanno più sottili. Per dirla con Agostino, si allontanano da Dio. Diminuiscono.
Il discorso sembra filare, ma immaginiamo di tornare al capezzale della moglie di C.S. Lewis, battergli una mano sulla spalla e dirgli: “Tranquillo, il male non esiste, è solo assenza di bene”. Fosse tanto facile, Lewis non avrebbe scritto Diario di un Dolore. Dio non ha creato il male, d’accordo. Ma perché gli permette di perdurare? E com’è nato il male?
Volendo creare un universo coerente pieno non solo di nani, elfi, hobbit, ma anche orchi, troll e demoni fiammeggianti, Tolkien doveva essersi posto le stesse domande e forse la filosofia di Agostino gli era tornata utile. Il Silmarillion, la cronaca mitologica (principalmente) della Prima Era del mondo di Tolkien – Lo Hobbit e Il Signore degli Anelli sono ambientati nella Terza –, si apre con la genesi dell’universo, Il Canto degli Ainur. Per quanto simile, preferisco l’abbozzo che Tolkien scrisse da giovane e che potete trovare nella raccolta Racconti Ritrovati, in cui l’atto della creazione è più “sceneggiato” e meno riferito.
La Storia di Arda
In principio era Eru Ilúvatar (Dio) e il Fuoco Segreto era presso di lui poiché solo chi detiene il Fuoco Segreto ha il potere della creazione. Nella Bibbia, l’universo di dispiega attraverso il Verbo. Nell’universo di Tolkien, attraverso la musica. Eru Ilúvatar creò gli Ainur (divinità assimilabili agli angeli) e insegnò loro la musica poiché potessero tessere essi stessi una melodia propria con cui rifinire la creazione. Eru Ilúvatar si sedette sul suo trono e ascoltò il canto degli Ainur accordato su un’unica armonia e dalla musica trasse visioni di cose meravigliose cui avrebbe potuto donare la vita. Il mondo, altro non è che una fantasia cui Eru Ilúvatar ha dato corpo.
Ogni storia, però, inizia con una caduta. Il canto degli Ainur iniziò a sfilacciarsi quando Melkor (o Morgoth), il più potente tra loro, che a lungo aveva frugato l’oscurità in cerca del Fuoco Segreto della Creazione, iniziò ad aggiungere proprie fantasie alla testura – era, in sostanza, un “Ribelle sub-creativo”. Melkor non poteva creare nulla poiché il Fuoco era presso Eru Ilúvatar. Così si limitò a stracciare il canto degli Ainur, deformarlo, corromperlo, contorcerlo e piegarlo finché altri di loro si unirono nella distorsione e innanzi al trono di Eru Ilúvatar comparvero due melodie in lotta come serpi.
Invece di sopprimere la nuova, caotica melodia, Eru Ilúvatar prestò ascolto a entrambe e da ambedue trasse l’ispirazione per generare un nuovo mondo, un mondo corrotto da Melkor perché con la distorsione erano nati il male, il dolore, la malattia e la morte, corruzioni di ciò che in principio era armonia. Ma l’armonia da sola non basta a generare qualcosa: sebbene sia difficile da vedere, dice Eru Ilúvatar mostrando agli Ainur la nuova Creazione in cui ogni cosa cantata, buona o cattiva è inscritta, il Male non fa che esaltare la gloria stessa di Dio, rendendo la sua Opera più complessa e degna e meravigliosa.
La scelta di Eru e le sue conseguenze
Come disse qualcuno: Dio non c’è, ma se c’è, è il caso di prenderlo a pugni. Quella di Eru Ilúvatar (almeno da un punto di vista razionale) suona tanto come una scusa o, al più, uno scaricabarile. “È tutta colpa di Melkor che ha corrotto la musica, io non c’entro, ormai è fatta.” Se vi aspettate risposte definitive, siete nel posto sbagliato. Certo è che Eru Ilúvatar concede un dono speciale alle nuove creature che popolano questo mondo corrotto, un mondo buono in principio, eroso dalla smania creatrice di Melkor. Questo dono particolare non spetta alla stirpe degli Elfi, i quali, per paradosso, lo invidiano nonostante siano stati graziati da una lunga vita.
L’eternità degli Elfi impedisce loro di scorgere quel piccolo dettaglio lasciato in sospeso da Eru Ilúvatar: essi vivono un tempo senza tempo, un’esistenza fissa in cui il cambiamento non è contemplato, vincolati al Fato che è riverbero del canto primordiale – motivo per cui nelle campagne di D&D gli Elfi di solito sono così insopportabili.
L’importanza del libero arbitrio
Questo dono, concesso ai mortali, è il libero arbitrio. Certo, la capacità di scegliere non redime un universo corrotto dall’equivalente fantasy di Lucifero. Gli orchi continueranno a flagellare le città degli uomini, i troll a infestare le montagne, poi malattie, carestie, guerre, morte… eppure è qui che il genio di Tolkien colpisce al cuore di ciò che, forse, gli era più caro. Non servono divinità o grandi sovrani per salvare il mondo: a volte bastano le piccole, minuscole scelte individuali di piccole, minuscole creature fallibili come gli Hobbit (e Frodo è senz’altro fallibile, ma è proprio nel gioco di umanità, egoismo e desiderio di possesso che nel cuore del Monte Fato il male distrugge se stesso).
L’Oscuro Sire, Sauron, deturpa la sua anima, infondendo la sua sete di dominio nell’Unico Anello (che, di nuovo, non è “creato” ex nihilo, dal nulla); Melkor sfigura i Maiar creando i fiammeggianti Balrog, storpia la progenie elfica generando gli Orchi, ma tutto il male che plasmano e rigurgitano sul mondo viene combattuto e sconfitto grazie alle piccole azioni di piccole creature che, invece di starsene in disparte, hanno scelto di contribuire alla creazione di qualcosa di nuovo. Qualcosa di migliore. Perché, sempre per citare Elrond: “Le ruote del mondo sono fatte girare da piccole mani”.
Verso una fine migliore
Chiudo con una nota sulla libertà, perché che libertà c’è nel vedere la persona amata morirti davanti? Un incidente, una malattia: chi causa il male? Come accennato di sfuggita, per Agostino il libero arbitrio permette all’uomo di allontanarsi da Dio. Seguendo le proprie ambizioni invece del disegno divino, come Melkor, l’uomo si corrompe e il male in lui riverbera su altri suoi simili.
Questo male coagulato nella materia (la stessa in cui è intrappolato Melkor dopo la caduta) si contrappone alla Città di Dio – un po’ come, tirandola per i capelli, Minas Morgul si contrappone a Minas Tirith. Le due Città, quella della carne e quella dello spirito, non sono separate, così come non sono separate le melodie nate dal Canto degli Ainur. L’uomo vive in entrambe le città, sempre, e spetta a lui scegliere dove spostarsi, illuminato (per Agostino) dalla Grazia divina. La Grazia divina sembra mettercela tutta per farci dubitare, e certamente C.S. Lewis era stato sul punto di cedere dopo la morte di Joy.
La morte, però, ricorda Tolkien (con buona pace di filosofi come Benatar), non è un male in sé. Gli Elfi possono esserne dispensati e continueranno a esistere nella materia fino alla fine dei tempi. Lo faranno intrappolati nella musica primordiale che ancora canta la sua canzone tra i marosi dell’oceano, all’ombra delle radure e nel vento che spazza le cime più alte. La libertà dalla morte, per gli Elfi, è la prigione del Fato.
I piccoli uomini, invece, che tanto si dannano per campare tra le sofferenze della vita, sono gli unici a poter trascendere la musica primordiale. Aggiungere un pezzo di creazione a quella divina, “sfidando le stelle avverse”, per citare un vecchio videogioco. Tolkien, in un’altra lettera:
Qui troverai fascino, gloria, onore, fedeltà e l’autentica via per tutti i tuoi amori sulla terra e ancora di più: la Morte; che, per divino paradosso, dà termine alla vita e richiede la rinuncia a tutto, eppure solo gustandola (o pregustandola) ciò che cerchi nelle relazioni terrene (amore, fedeltà, gioia) può mantenersi, o assumere quell’apparenza di realtà, di eterna durata, che il cuore di ogni uomo desidera.
Conclusione
Non so se Tolkien abbia ragione. Personalmente, parafrasando Woody Allen, “non ho paura della morte ma in generale sono contrario“. Quel poco in cui credo è che l’immaginazione, la fantasia, siano le uniche arti elfiche che abbiamo per sganciarci dalle trame di Melkor. Non basteranno a salvarci, ma renderanno il nostro soggiorno in questo benedetto mondo primario migliore, aprendo la porta ad altri, infiniti mondi. E quando torneremo coi piedi per terra, dopo una buona storia, forse vedremo uno spiraglio dove prima sembrava esserci solo il male. E, chissà, potremmo perfino finire col credere nella magia.
Se vi è piaciuto l’argomento, qui, qui e qui abbiamo parlato della sua traduzione e delle numerose polemiche che ne hanno accompagnato la pubblicazione.