Come ormai saprete, nella redazione dei Cercatori di Atlantide abbiamo molto a cuore il tema della parità di genere e, nel nostro piccolo, ci impegniamo a combattere ogni forma di discriminazione. Non potevamo, quindi, esimerci dal parlare del polverone sollevatosi all’interno di Riot Games.
La casa produttrice del noto MOBA League of Legends, infatti, nel novembre 2018 è stata coinvolta in una massiccia class action (di cui trovate il testo originale qui) che si è conclusa solo qualche settimana fa, con un accordo tra le parti che prevede un risarcimento da 10 milioni di dollari. Ma quali sono le accuse mosse contro l’azienda di Los Angeles? Vediamo insieme le principali.
GENDER PAY GAP
Da esattamente 70 anni, in California esiste una specifica normativa in materia di equità salariale, che tutela i lavoratori da episodi di discriminazioni e ritorsioni basate sul genere e, a seguito di recenti aggiornamenti, anche su razza ed etnia. Sebbene l’80% delle circa 2500 persone attualmente impiegate all’interno di Riot Games siano uomini, all’azienda è stata contestata la violazione di tale statuto, con l’accusa di non aver garantito alle donne lo stesso stipendio dei colleghi uomini (in ruoli “sostanzialmente equiparabili”) ma anche di aver impedito loro l’accesso alle posizioni di maggiore responsabilità e, di conseguenza, con migliore paga. Tale fenomeno prende il nome di “glass ceiling”, ovvero “soffitto di vetro”, proprio ad indicare la presenza di una barriera invisibile che impedisce alle donne di fare carriera e arrivare ai ruoli di comando.
Tra le accuse troviamo anche quella di aver assegnato, ad alcune dipendenti, compiti ben al di sopra del ruolo (e della paga) per cui erano state assunte, con la falsa promessa di una promozione. Una volta giunte a ricoprire a tutti gli effetti tale posizione, però, al loro posto sono stati scelti colleghi uomini senza giustificare adeguatamente tale inversione di rotta.
Esistono situazioni in cui l’Equal Pay Act può non essere applicato (come in caso di anzianità, merito, produttività, ecc…) ma gli episodi interessati dalla class action non sembrano rientrare in queste eccezioni.
BRO CULTURE
Alle questioni relative alla parità salariale va ad aggiungersi anche un’aspra critica alla cosiddetta “bro culture” presente in azienda. In italiano potremmo rendere l’idea traducendo il termine con “cameratismo” ma si tratta di un fenomeno che va ben oltre l’accezione (positiva) di solidarietà fraterna tra colleghi e si avvicina alla situazione di alcune confraternite americane, da cui prende anche il nome di “frat culture”.
In questo caso specifico, infatti, con “bro culture” si intende un ambiente omertoso ed escludente nei confronti delle figure femminili, in cui gli uomini si spalleggiano a vicenda, portando avanti comportamenti oppressivi, denigratori o molesti nei confronti delle vicine di scrivania.
Tra le accuse mosse alla Riot Games figura quella di non aver vigilato su questo tipo di atteggiamenti, portando le proprie dipendenti a dover tollerare battute su argomenti sgradevoli quali sesso, masturbazione, defecazione, tortura e stupro. Secondo i documenti depositati dalla corte, prese in giro ed oggettificazione sono all’ordine del giorno e “Le donne che non si uniscono a tale ironia adolescenziale, vengono classificate come snob e riluttanti ad ambientarsi all’interno della compagnia”. O ancora: “Le dipendenti vengono regolarmente sminuite dai propri responsabili durante le riunioni con il personale, attraverso commenti quali ‘Suo marito e i suoi figli devono davvero sentire la sua mancanza mentre è al lavoro’, ‘dovrebbe parlare di meno’ oppure critiche sul tono di voce, giudicato troppo squillante”. Nelle carte viene riportata anche l’esistenza di una catena e-mail con una classifica delle impiegate più sexy dell’azienda. Insomma, il livello sembra essere davvero quello dei ragazzini delle scuole medie e tutto ciò non può e non deve essere tollerato, tanto più che si configura come molestia.
RECRUITMENT
Tra le accuse mosse all’azienda ce n’è anche una di carattere formale e riguarda le parole scelte per descrivere i requisiti necessari per lavorare presso la Riot Games, in fase di reclutamento. Sebbene la ricerca di “core gamer”, infatti, possa sembrare un innocuo rimando ad una figura che nutra profonda passione per il mondo videoludico, tale formulazione pare essere stata usata come scusa per preferire l’assunzione di uomini rispetto a quella di donne.
A tal proposito, è possibile trovare online la testimonianza anonima di una ex dipendente della Riot che ha visto rifiutare tutte le candidate che ha proposto per ricoprire ruoli di leadership, con giudizi che andavano da “arrampicatrice” a “non abbastanza gamer”.
Del resto, ammettiamolo, non è una novità che il mondo dei videogiochi porti ancora fin troppo spesso con sé un certo tipo di pregiudizio verso le giocatrici donne e le motivazioni per cui si avvicinano a tale ambiente. Se così non fosse, noi stessi non avremmo sentito la necessità di portare avanti un’iniziativa come Mastera la Master, per combattere la convinzione che vede le ragazze come meno competenti, troppo emotive o alla ricerca di attenzioni maschili.
CLASS ACTION E RISARCIMENTO
A far partire la class action sono state Melanie McCracken e Jessica Negron, rispettivamente impiegata ed ex dipendente della Riot Games, a cui si sono unite circa un migliaio di donne che hanno lavorato (o lavorano tuttora) per la società californiana e hanno raccontato la propria esperienza.
A seguito della querela, Riot ha fatto partire degli accertamenti interni e, pur scusandosi con le dipendenti per i comportamenti “non in linea con i valori aziendali”, ci ha tenuto a precisare che “discriminazione di genere, molestie e ritorsioni non siano problemi sistemici” all’interno della compagnia. La questione si è dunque risolta con un accordo tra le parti e un risarcimento da 10 milioni di dollari.
Volendo fare delle considerazioni di tipo economico, invece, è opportuno guardare in faccia la realtà: cosa sono 10 milioni per un’azienda che dichiara un fatturato di quasi 2 miliardi di dollari all’anno? Secondo una stima, potrebbe essere l’equivalente dei ricavi derivati da UNA SINGOLA skin di League of Legends. Insomma, staremmo parlando di noccioline, di pochi spiccioli.
Inoltre, secondo quanto dichiarato da una ex dipendente su Twitter, non sarebbero idonee a ricevere il risarcimento tutte le donne che hanno firmato le dimissioni o hanno preso la liquidazione quando si sono congedate dalla società.
Insomma, almeno sulla carta, non stiamo certo parlando di una grande vittoria o di un risarcimento esemplare. A consolarci, però, resta la speranza che sollevare la questione possa essere servito a dare un segnale positivo e ad aumentare la consapevolezza del problema, per poterlo evitare in futuro.