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H. P. Lovecraft: tra immagine e rappresentazione

L’intento dell’articolo è di mostrare l’uso dell’immagine in Lovecraft e, in base a questa indagine, comprendere quale sia il miglior modo per rappresentare i suoi romanzi.

Note Biografiche

Howard Phillips Lovecraft nasce a Providence il 20 Agosto del 1890 per morire nella stessa cittadina natale nel Marzo del 1937.
Sin da piccolo, come annotato in alcune sue autobiografie, si dedica allo studio e alla letteratura, educazione impartitagli all’interno delle mura famigliari. La salute di Lovecraft, infatti, risulta molto cagionevole e ciò lo porterà a rinunciare a frequentare i primi anni scolastici e a dover mettere da parte alcune delle sue passioni.
In giovanissima età incomincia a leggere libri come le fiabe dei fratelli Grimm o Le mille e una notte i quali echi saranno sempre presenti nelle sue opere. In particolare, il fascino medio-orientale lo catturerà da subito, spingendolo a ricreare all’interno della sua abitazione uno spazio arabeggiante e a farsi chiamare Abdul Alhazred, nome che ricorrerà nei suoi futuri romanzi, designando colui che per primo diede vita al folle e blasfemo Necronomicon.

Dopo un primo “periodo arabo”, l’interesse del giovane Lovecraft viene catturato dalla mitologia romana tanto che lui stesso scriverà:

“La mitologia era allora la mia linfa vitale e arrivai quasi al punto di credere negli dèi greco-romani, vagheggiando al crepuscolo di scorgere fauni, satiri e driadi nella foresta di querce dove sto sedendo ora. Quando avevo circa sette anni le mie fantasticherie mitologiche mi fecero desiderare di essere – e non solo di vedere – un fauno o un satiro. Cercavo di immaginare le punte delle mie orecchie stessero cominciando ad appuntirsi, e che in fronte recassi i segni di un nascente paio di corna. Come lamentavo che i miei piedi si stessero trasformando in zoccoli troppo lentamente! Costruii dei veri e altari boschivi in onore di Pan, Giove, Minerva e Apollo, dove ero solito sacrificare piccoli oggetti in una profusione d’incenso.”

All’età di nove anni comincia a coltivare un grandissimo interesse per le scienze e l’astronomia, acquistando un piccolo telescopio e creando un modesto laboratorio chimico dove potersi esercitare, passione che dovrà abbandonare a causa dei suoi problemi di salute.
Egli soffre di esaurimenti nervosi, che lo portarono ad accusare un malessere continuo e incessanti incubi di mostri e visioni oniriche, che ispireranno non pochi dei suoi racconti.
Incomincia a pubblicare i suoi romanzi nella rivista Weird Tails verso il 1923. Nonostante tutto non riuscirà a vivere dei suoi racconti e il suo impiego principale sarà di critico e di revisione degli scritti altrui, lavoro che proseguirà fino alla sua morte.

Queste piccole note autobiografiche servono per avere un’idea più o meno generica della vita e di che tipo di personaggio potesse essere il Solitario di Providence. Naturalmente queste sono solo delle informazioni parziali che non tengono conto della complessa personalità dello scrittore e delle sue mille sfaccettature, dai temi politici a quelli razziali, dai temi filosofici a quelli sociali. Sarebbe molto interessante affrontare questi argomenti, di cui si hanno informazioni dettagliate grazie all’immenso carteggio che Lovecraft tenne negli anni, ma ciò porterebbe abbondantemente fuori tema e per questo motivo non saranno approfonditi.

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Il “Pessimismo esistenziale”

Lovecraft sviluppa quello che può essere considerato come una sorta di “pessimismo esistenziale”: vive in un’epoca dove lo sviluppo del sapere scientifico e del pensiero filosofico (soprattutto Nietzsche) sottolineano la posizione marginale dell’uomo all’interno dell’universo, come fosse un piccolo granello di sabbia in un “nero mare d’infinito”.
Lovecraft racchiude e fa sentire in maniera pressante questa idea in tutte le sue opere. Emblematico l’inizio del suo racconto più noto Il richiamo di Cthulhu:

“Penso che la cosa più misericordiosa al mondo sia l’incapacità della mente umana di mettere in relazione i suoi molto contenuti. Viviamo su una placida isola d’ignoranza in mezzo a neri mari d’infinito e non era previsto che ce ne spingessimo troppo lontano. Le scienze, che finora hanno proseguito ognuna per la sua strada, non ci hanno arrecato troppo danno: ma la ricomposizione del quadro d’insieme ci aprirà, un giorno, visioni così terrificanti della realtà e del posto che noi occupiamo in essa, che o impazziremo per la rivelazione o fuggiremo dalla luce mortale nella pace e nella sicurezza di una nuova età oscura.”

Questo passo racchiude da una parte il pensiero di Lovecraft, dall’altra la struttura di un suo tipico racconto. Solitamente i protagonisti sono dei soggetti con un qualche tipo di istruzione (medici, antiquari, professori…) che, a seguito di eventi fortuiti e di un’inspiegabile sete di conoscenza, si imbattono in un qualcosa più grande di loro. Una volta raccolti tutti gli indizi necessari e “ricomposto il quadro d’insieme”, il destino dei protagonisti è inevitabilmente segnato: si andrà in contro alla morte o alla follia.

Gli Orrori Cosmici in Lovecraft

Ma perché follia? Il motivo risiede nella natura degli orrori narrati dal Solitario. Vengono detti orrori cosmici poiché composti da esseri provenienti dal cosmo, che rispondono a leggi e logiche non comprensibili dall’intelletto umano. Questo tipo di incomprensibilità viene portata alle estreme conseguenze come un’impossibilità di rappresentazione. Ciò che si para davanti al protagonista del racconto è un qualcosa che trascende l’ordine umano, in maniera tale da non poterne comprendere i meccanismi. La mente non riesce a processare ciò che si trova di fronte a lui, rimangono impresse immagini distorte e incomprensibili, che nessun essere vivente avrebbe mai dovuto vedere o intuire. Nonostante tutto quel qualcosa è stato visto o sentito, compromettendo irrimediabilmente la sanità dello sfortunato.
Quello che è inizialmente un sottile desiderio, una curiosità, un piacere dell’intelletto, entrando a contatto con il mondo cosmico, non diventa altro che un bisogno morboso e incontrollabile: non entrano più in gioco le capacità di godimento umane ma sopraggiungono quegli istinti primordiali latenti all’interno di ogni essere umano, echi di un’epoca antica oscura e con essi le loro paure di età ignote e così lontane che neanche il tempo ne possiede memoria.

Dal punto di vista della scrittura, per descrivere tale orrore, Lovecraft usa descrizioni vaghe e indefinite, che rimandano all’idea di un qualcosa che non è effettivamente quella cosa.
Un esempio della tecnica narrativa utilizzata dal solitario di Providence può essere riscontrato ne Il colore venuto dallo spazio, dove si racconta di un meteorite caduto in una vallata del New England e che porta con sé uno strano e ignoto colore.
Questa la descrizione che ne dà Lovecraft:

“Ad Aprile nelle campagne si diffuse una specie di follia, e la gente cominciò a non usare più la strada che passava dalla fattoria di Nahum: fu questo, poco a poco, a portare al suo completo abbandono. Era colpa della vegetazione: gli alberi dei frutteti misero fiori dai colori straordinari e sul terreno pietroso del cortile e del pasturo adiacente crebbe un’erba bizzarra che solo un botanico avrebbe potuto ricondurre alla flora abituale della regione. Nessun colore normale o conosciuto apparteneva più a quei fiori e a quegli alberi, tranne alcune chiazze di erba verde e una parte delle foglie; dappertutto si estendevano le folli, prismatiche varianti del colore malato e fondamentale che non aveva uguali fra quelli della terra. Innocui fiori di campo assunsero un aspetto minaccioso, comuni radici inquietavano al solo vederle nella loro perversione cromatica.”

In questo estratto si può ben notare come Lovecraft parli di questo strano “colore” senza mai definirlo in maniera definita, immobile e stabile. Ciò che fa è, invece, cercare di lasciare all’immaginazione di ogni lettore la natura di questo colore, creando delle immagini intime e personali che rispecchino le paure più profonde dei singoli lettori. Questo colore non esiste nel mondo terreno, è un qualcosa che trascende l’idea di colore stesso ma che viene definito in questo modo solo perché l’essere umano non può non categorizzarlo se non in questo modo. Questa idea di “rappresentazione soggettiva” viene esplicitata successivamente nel racconto:

“A questo punto, mentre la colonna di colori sconosciuti si irradiava con sempre maggiore intensità, organizzandosi in forme fantastiche che in seguito ogni spettatore avrebbe descritto in modo diverso, il povero Hero fece un verso che nessun aveva mai sentito prima. Tutti i presenti si tapparono le orecchie e Ammi si allontanò dalla finestra in preda a nausea e orrore.”

Ognuno vede delle immagini, diverse dalla rappresentazione della persona a lui vicina. Ho voluto allungare leggermente il passo citato per mettere alla luce che mentre nella prima descrizione viene creata un’immagine visiva, in questo secondo brano viene composta un’immagine principalmente uditiva, e su questi due elementi (immagine visiva e uditiva) insiste e crea alcune delle sue rappresentazioni più potenti. Esse sono create attraverso il mero uso della scrittura e, per loro natura, non sono rappresentabili: sono qualcosa di “fluido”, modellabili e personali, rispecchiando l’immaginazione e le paure che ognuno cova dentro di sé. In netto contrasto ci sono delle cose “fisse” e facilmente rappresentabili. Non di rado si assiste alla descrizione in maniera quasi maniacale di un luogo, raccontandone vie, suoni, odori, in maniera del tutto attinente alla realtà, dando quasi una rappresentazione topografica del posto, fornendo il nome delle strade e i relativi civici di appartenenza.

È proprio dal netto contrasto fra queste immagini che nasce e si genera terrore, di volta in volta, all’interno di queste descrizioni iperrealistiche, si annidano degli indizi o delle suggestioni che rompono la fissità dell’immagine, creando un senso di inquietudine e di mistero.

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La fortuna postuma di Lovecraft

Nonostante Lovecraft non abbia trovato grande fortuna in vita, negli anni successivi alla sua morte verrà fortemente rivalutato, dando vita a quel genere che viene chiamato cosmic horror. Moltissimi settori sono stati influenzati dalla sua scrittura e dalle sue ambientazioni, come il settore cinematografico, musicale, videoludico, serie Tv, romanzi dell’orrore, tra cui non è possibile non menzionare Stephen King, che considera il Solitario come una sorta di modello.

È importante però fare una distinzione fra due elementi: la rappresentazione dell’atmosfera e la rappresentazione dell’orrore. Per quanto riguarda le arti di carattere visivo, come, per esempio, trasposizioni cinematografiche, videoludiche o pittoriche, esse riescono a rendere al meglio l’atmosfera, ma non l’orrore. Esso, per sua natura, come analizzato precedentemente, sfugge alle logiche umane e quindi irrappresentabile in maniera fissa e stabile, necessita della flessibilità e della forza evocativa della parola.
Per descrivere l’orrore, rimanendo fedeli al nucleo lovecraftiano, svolgono sicuramente un ruolo migliore la musica o il romanzo, che, per le loro caratteristiche fluide, riescono a trasmettere l’idea di irrappresentabilità dell’orrore, perdendo però la potenza e l’immediatezza che un’immagine, attraverso i giochi di luce e di colore, riescono a creare scenari suggestivi e d’impatto.

La forma di rappresentazione che, credo, possa far conciliare questi due aspetti è quella del Gioco di Ruolo. Il narratore ha vari modi per far entrare i giocatori all’interno del mondo di gioco ma, naturalmente, il modo principale è l’uso della sua dialettica e della voce. Ciò non toglie la possibilità di utilizzare elementi esterni, come immagini, musica, veri e propri oggetti di gioco e così via.
In questo modo si può quindi unire, da una parte la fluidità della parola, attraverso delle descrizioni curate e calzanti con lo spirito lovecraftiano, rappresentandone l’orrore; dall’altra, attraverso l’uso di elementi visivi fissi, è possibile rendere in maniera immediata l’atmosfera. In questo modo sembra possibile conciliare questi due elementi che difficilmente possono convivere nelle altre arti.
Due domande però si aprono e che saranno anche la conclusione di questo articolo:

  • Come si fa a far entrare i giocatori all’interno del mondo di gioco con l’uso della sola parola?
  • Cosa succede quando si gioca di ruolo?
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Per rispondere alla prima domanda è possibile richiamare alla mente la distinzione di Gorgia fra persuasione e inganno.
La persuasione possiede un duplice significato: da una parte indica la forza razionale della parola che, attraverso il puro ragionamento e la sua potenza logica, spinge all’azione; dall’altra indica la forza irrazionale della parola, che costringe l’uomo ad agire non tanto per libera scelta ma per costrizione. Questi due elementi convivono in maniera organica e non è possibile prescinderne.
Per quanto riguarda l’inganno, in epoca greca, esso non assume necessariamente una connotazione negativa che il termine odierno trasporta con sé, ma può essere inteso come “illusione”. Essa blocca chi è ingannato in un mondo distorto, diverso dalla realtà, ma esistente e reale per il soggetto ingannato.
È proprio usando la forza persuasiva del logos (parola) e il concetto di inganno che è possibile far entrare i giocatori all’interno del mondo di gioco, unitamente alla capacità oratoria del narratore.

Per rispondere alla seconda domanda bisogna ricorrere al concetto di maschera. La maschera altro non è che uno schermo, un dispositivo che ci fa essere ciò che non siamo, e che divide i rapporti con la realtà. Basti pensare alla rappresentazione teatrale o, per esempio, al Carnevale o alla festa di Halloween, momenti in cui, attraverso la maschera, non si è più noi stessi ma si è un altro che si decide di interpretare. Lo stesso processo avviene durante una sessione di gioco di ruolo: si indossa una maschera, che può essere invisibile o reale, che fa uscire da sé il singolo soggetto, facendolo essere altro da sé ma allo stesso tempo sé stesso, in un movimento catartico e mimetico.
Il livello di immedesimazione raggiunta attraverso il gioco di ruolo può essere veramente alta, tanto, come mi è capitato, da piangere per la morte di un compagno o gioire per un combattimento agognato. La maschera che si indossa diventa quasi una seconda pelle, una maschera che ti accompagna per lungo tempo, spesso anni e che, quando indossata, fa immergere completamente nel mondo ingannatore.

L’espressione massima del concetto di mascheramento è data da quello che può essere considerata la parte più radicale del gioco di ruolo, cioè il LARP, live action role playing: “il gioco di ruolo da vivo è una forma di gioco di ruolo in cui i partecipanti interpretano fisicamente i personaggi con il proprio agire, rappresentando le situazioni fittizie nello spazio reale che li circonda. È comune, per accentuare l’immedesimazione, l’uso di costumi, equipaggiamento e scenografie a tema con l’ambientazione di gioco, sia essa storica o di pura fantasia. Si può considerare un’attività ludica di forma teatrale e individuarvi un genere artistico nel campo del teatro ludico (anche se è opportuno sottolineare che di norma il gioco di ruolo dal vivo non prevede un pubblico ed è a esclusivo uso e consumo dei partecipanti)”

Per concludere, vorrei riportare una citazione di Roger Caillois, che riassume quanto detto fino ad ora:

“Ogni gioco presuppone l’accettazione temporanea, se non di un’illusione, almeno di un universo chiuso, convenzionale e, sotto determinati aspetti, fittizio. Il gioco può consistere non già nello sviluppare un’attività o nel subire un destino in un contesto immaginario, ma nel diventare noi stessi un personaggio illusorio e comportarci di conseguenza. Ci troviamo allora di fronte a tutta una serie di manifestazioni che hanno come caratteristica comune quella di basarsi sul fatto che il soggetto gioca a credere, a farsi credere, o a far credere agli altri di essere un altro. Egli nega, altera, abbandona temporaneamente la propria personalità per fingerne un’altra.”

Quindi, sulla base del singolare funzionamento del gioco di ruolo, grazie alla sua flessibilità e fluidità espressiva, e del modo in cui Lovecraft utilizza l’immagine all’interno dei suoi racconti, ritengo che il gioco di ruolo sua il miglio modo per rappresentare al meglio gli scritti lovecraftiani, trasmettendone la tensione senza perdere la loro originaria irrappresentabilità.

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