Ad appena una settimana di distanza dal remake di Resident Evil 3 un’altra reliquia PSX verrà riproposta in chiave moderna: dopo anni di incessante richiesta da parte del pubblico, Square Enix ha infatti deciso di produrre il remake di Final Fantasy VII, uno dei titoli di punta più amati e di successo per la compagnia.
Uscito per la prima volta il 31 gennaio 1997, questa pietra miliare dei JRPG contribuì enormemente alla crescita dell’allora Squaresoft e a definire l’identità della prima PlayStation.
Nonostante i traguardi raggiunti, tuttavia, Final Fantasy VII, nato a cavallo tra due generazioni drasticamente differenti di console, ha avuto uno sviluppo decisamente movimentato, che ebbe inizio nel fatidico 2 aprile 1994.
Decisioni ponderate
In questa data venne infatti pubblicato Final Fantasy VI, titolo che raggiunse rapidamente il maggior successo mai registrato per il franchise sia in termini di vendite che di ricezione dalla critica e dal pubblico.
Questo risultato, sicuramente appagante per lo staff, dimostrò ancora una volta come i metodi poco convenzionali di approccio allo sviluppo di Hironobu Sakaguchi, orientato verso il proporre ad ogni iterazione nuovi personaggi, nuove ambientazioni e nuove storie piuttosto che riproporre elementi familiari e già consolidati, approccio assai rischioso se consideriamo la natura volubile del mercato videoludico dell’epoca, potessero risultare vincenti.
Ma se già i primi cinque titoli della serie avevano segnato l’evoluzione partita dall’ultimo respiro di uno sviluppatore rassegnato e disilluso ad un franchise d’avanguardia, Final Fantasy VI risultò essere speciale per aver ridefinito la figura di Sakaguchi negli schemi di Final Fantasy: per quanto una figura importante, infatti, il “papà” della serie non era integrale alla buona riuscita di un titolo del franchise, cosa dimostrata dall’esordio del giovane Yoshinori Kitase, ex-studente di cinematografia e sceneggiatura che ebbe in Final Fantasy VI il suo primo lavoro da Game Director a fianco del creatore del sistema ATB Hiroyuki Itō, con cui Kitase modificò in modo netto e più dinamico il metodo di lavoro del team di sviluppo.
Avendo ampiamente provato che la scelta di Sakaguchi di riporre la propria fiducia in lui fosse corretta, Kitase si ritrovò inevitabilmente alla direzione del progetto successivo.
In una Square guidata da principi di innovazione e perfezionismo, le difficoltà con Final Fantasy VII si presentarono praticamente subito nella scelta su quale forma il titolo avrebbe dovuto assumere.
Dopo quella che possiamo immaginare essere stata una lunga serie di dibattiti, il team raggiunse tre possibili conclusioni: produrre un titolo dalla direzione artistica simile a Final Fantasy VI e pubblicarlo su Super Famicom/SNES, beneficiando di uno sviluppo semplice, rapido e dal facile ritorno economico ma che, di contro, avrebbe contribuito poco a spingere il franchise verso il futuro; la seconda alternativa, rischiosa e che avrebbe contemplato investimenti più consistenti, stava nel produrre un titolo in 3D nella successiva ed imminente generazione di console, compensando i rischi e le risorse con il potenziale posizionamento di Square nell’avanguardia di sviluppo videoludico ed un pubblico molto ampio; una via di mezzo tra le due alternative faceva da terza, papabile opzione: un titolo per Super Famicom con un nuovo approccio di art design e nuovi sistemi e meccaniche.
Ogni alternativa a disposizione aveva i suoi pro ed i suoi contro, e benchè oggi sappiamo che Square finì per puntare sulla seconda opzione, non fu quella la direzione originale scelta: per aiutare la crescita dell’azienda, infatti, i membri di punta di Square scelsero di quotare in borsa l’azienda, scelta che avrebbe portato nuova linfa vitale nelle risorse a disposizione della compagnia ma che, di conseguenza, avrebbe compreso investitori da soddisfare e convincere, con l’inevitabile obbligo di evitare rischi superflui.
Per quanto meno affascinante, quindi, non è sorprendente scoprire che fu la prima alternativa ad essere scelta come direzione per il gioco, in quanto più sicura ed economicamente sostenibile.
Lavori in corso
A soli tre mesi dal lancio di Final Fantasy VI, dunque, inizia la pre-produzione del seguito ad opera di Yoshinori Kitase e del suo team di circa una trentina di persone.
A discapito delle restrizioni creative imposte dai piani alti dell’azienda, lo spirito innovatore dei dipendenti non si era spento portando immediatamente il team a esplorare opzioni ed idee su come proporre qualcosa di innovativo ed originale.
Se la direzione artistica ed i sistemi di gioco erano fuori discussione, l’unica opzione rimasta era la narrativa, un’opzione perfetta per il background di studi di Kitase.
Postumo dell’esperienza di Final Fantasy VI, il director concluse che, sebbene gradevole e ben riuscito, il cast di personaggi proposto fosse troppo ampio per permettere alla storia di seguire in maniera fluida ognuno di essi dando loro i rispettivi momenti di enfasi adeguati: Kitase dunque scelse di approcciare ogni aspetto di Final Fantasy VII spostando la sua attenzione sulla densità di contenuto piuttosto che sulla sua lunghezza.
Il titolo sarebbe stato completabile rapidamente, ma la sostanza e le diverse strade narrative avrebbero incoraggiato i giocatori a ripetere più partite.
Ispirato da Il Padrino – parte 2, Kitase immaginò una storia raccontata attraverso due periodi di tempo correlati tra di loro seguendo le vicende di due protagonisti, padre e figlio, con l’idea di proporre diverse decisioni nel racconto del padre che il giocatore avrebbe dovuto prendere mutando l’andamento degli eventi nel periodo che coinvolge le vicende di suo figlio: accettare o rifiutare di portare a compimento un atto eroico avrebbe, ad esempio, determinato la fama del padre e, di conseguenza, il modo in cui il figlio viene accolto. Allo stesso modo, le abilità del padre avrebbero fatto evolvere in maniera indiretta il figlio attraverso oggetti come, ad esempio, un libro contenente i suoi insegnamenti.
Kitase voleva anche che la storia cambiasse in base alla composizione del party: ci sarebbe stata, ovviamente, una narrativa centrale in cui l’eroe avrebbe dovuto salvare il mondo da una cometa, ma in base a chi fosse stato presente in determinati momenti sarebbero iniziati vari eventi secondari.
Tra le numerose idee vi era anche l’inclusione di eventi casuali all’interno della mappa di gioco, facilmente mancabili dai giocatori, incentivando l’idea di rigiocabilità che Kitase voleva convogliare nel titolo.
Sulla carta, quindi, Final Fantasy VII sarebbe stato un titolo drasticamente diverso da quanto fatto in precedenza e, per questa ragione, le intenzioni iniziali del director furono di portare con questi cambiamenti un nuovo genere narrativo.
Nonostante accenni di elementi tecnologici, infatti, Final Fantasy aveva sempre presentato ambientazioni di stampo fantasy prevalentemente tradizionale: i personaggi usavano spade, asce, incantesimi e affrontavano mostri, creature mistiche e mitologiche.
Già con Final Fantasy VI l’idea che la serie non dovesse restare confinata a questo genere aveva cominciato ad esprimersi, ed era anche per volontà e spinta di Sakaguchi che Kitase voleva allontanarsi da quei confini tradizionali.
I miti e le leggende tipiche dell’eroe fantasy sarebbero dunque rimaste nel gioco, ma come cornice per aspirazioni etiche più grandi quali una forte coscienza ecologistica e la celebrazione generale della vita, sentimento tematico da cui Sakaguchi era fortemente preso sin dallo sviluppo di Final Fantasy III durante il quale avvenne il decesso di sua madre.
Il suggerimento di Sakaguchi per questo tipo di storia, dove il tema della vita avrebbe accomunato il pianeta e tutte le persone come unità collettiva, fu sullo stampo dei film noir con una base tradizionale che avrebbe avuto, come ambientazione principale, New York.
Al centro di questa narrativa dal mood giallo ci sarebbe stata un’organizzazione ecoterrorista intenzionata a distruggere i complessi industriali, inseguita costantemente dal detective fulcro della storia, di nome Joe.
Ostacoli
Dopo un trimestre di sviluppo in cui i concetti e le idee gettate da Kitase e Sakaguchi furono messi in atto, tra possibili personaggi e, addirittura, un prototipo giocabile, il team incaricato di produrre Final Fantasy VII si ritrovò ad interrompere immediatamente i lavori a causa della crescente importanza di Maru Island, un progetto parallelo che stava affrontando una profonda crisi produttiva.
Il progetto di Maru Island nacque dalle necessità di Square, già sentite ai tempi di Final Fantasy IV, di lasciarsi alle spalle l’utilizzo di cartucce ROM, limitate dal loro spazio di archiviazione, di cui i titoli naturalmente vasti prodotti da Squaresoft avevano disperato bisogno.
Una volta saputo della collaborazione tra Nintendo e Sony per un lettore CD che facesse da espansione al Super Famicom, l’azienda accolse l’idea con entusiasmo iniziando lo sviluppo di Secret of Mana per fare pieno uso della nuova tecnologia in lavorazione.
Sfortunatamente, quando lo sviluppo della periferica (e la collaborazione tra le due compagnie) fu bruscamente interrotto, Square dovette riportare tutto il lavoro un passo indietro per permetterne la pubblicazione su una ROM standard.
Rassicurati da Nintendo e dal secondo tentativo di passare al CD-ROM con Philips, Square iniziò l’ambizioso progetto denominato Maru Island, che combinava le menti creative dietro Final Fantasy, Dragon Quest e Dragon Ball.
Anche la periferica Nintendo-Philips, tuttavia, sfumò in un nulla di fatto che lasciò Square in una posizione di forte vulnerabilità, costringendoli ad eliminare moltissimo del lavoro fatto pur di poter pubblicarne i resti su una cartuccia per Super Famicom.
A tal scopo fu necessario riassegnare molte risorse chiave interne, motivo per cui Final Fantasy VII fu messo in hiatus per permettere a Kitase di lavorare in supporto a Maru Island, cambiato radicalmente e rinominato Chrono Trigger.
Il titolo fu un enorme successo videoludico, ma la quantità di tempo richiesta dal suo sviluppo portò Kitase a rivalutare numerosi elementi di Final Fantasy VII anche in virtù dei cambiamenti portati dal progetto Ultra 64 di Nintendo, che aveva spinto Square a lavorare con l’infrastruttura della console e sperimentare con la grafica tridimensionale.
Lo spazio di archiviazione, tuttavia, restava un problema non trascurabile: Saturn e PlayStation avrebbero usato dischi, mentre Ultra 64 avrebbe continuato ad usare cartucce, limitando la possibilità di usare cutscene cinematiche all’interno dei giochi.
La promessa di una periferica (il Nintendo 64DD) in grado di espandere lo spazio di archiviazione delle cartucce convinse Square a proseguire con i lavori svolti fino ad allora con progressi costanti e decisivi: Kitase, da avido cinefilo, era fortemente convinto che fosse tempo per i videogiochi di avventurarsi nel 3D e, vedendo i progressi fatti durante il tempo in cui ha lavorato a Chrono Trigger, convinse Sakaguchi ad abbandonare l’idea di rilasciare Final Fantasy VII su Super Famicon e di gettarsi nella rischiosa impresa di realizzare per la prima volta un Final Fantasy in 3D.
Avuto il via libera, Kitase iniziò a mettere insieme una squadra di creativi pronti a lavorare alla produzione del titolo per Nintendo 64DD, ma prima che potessero fare dei veri e propri progressi Square interruppe i rapporti con Nintendo da cui, per via dei continui rinvii e progetti interrotti degli ultimi tempi, non era più possibile trarre beneficio.
Nuova piattaforma, nuovo team
Era l’inizio del 1996 quando Squaresoft annunciò lo sviluppo di Final Fantasy VII per PlayStation.
Le implicazioni di questa decisione causò l’intero stravolgimento di tutto il progetto, rendendo il titolo una grossa scommessa per Square: il progetto avrebbe richiesto più risorse, personale e tecnologia di quanto non fosse accaduto prima, così l’azienda investì per portare il team di 20-30 persone a diventare uno studio di 150 professionisti, con i migliori talenti a disposizione di Square riassegnati per assicurare che la direzione artistica, musicale e meccanica fosse degna di una transizione dal vecchio 2D al nuovo 3D.
Con una tecnologia ed un ambiente di sviluppo in costante mutamento il team si ritrovò a doversi adattare e cambiare rapidamente, il tutto sotto la schiacciante pressione della portata del progetto, della responsabilità che comportava e, infine, dallo stress dovuto al fatto che gran parte del lavoro svolto fino ad allora avrebbe dovuto essere scartato o cambiato in maniera significativa.
Con molto più spazio a disposizione, Kitase si mise all’opera per espandere la narrativa del titolo, cosa che gli risultò più semplice grazie anche al rinnovato supporto sul lato scrittura.
Kaori Tanaka propose, ad esempio, un’approfondita storia parzialmente focalizzata su un guerriero con personalità multiple, Motomu Toriyama propose l’idea che i personaggi ricevessero sogni da delle divinità, donando loro poteri speciali volti a realizzare i sogni ricevuti come missione.
Molte idee ricevute dai vari membri del team furono scartate, ritenute incompatibili con il progetto, nonostante elementi individuali dei vari suggerimenti furono usati per assemblare una nuova narrativa.
Tutto ciò che non veniva usato, allo stesso tempo, veniva conservato per essere ripreso da altri progetti: la bozza di Sakaguchi, quella ambientata a New York, fu parzialmente riutilizzata come pase per dare vita a Parasite Eve; lo script di Tanaka fu ampiamente utilizzato per realizzare Xenogears mentre Toriyama con le sue idee gettò le fondamenta di Final Fantasy XIII e del progetto Fabula Nova Crystallis.
Persino l’iniziale idea di Kitase, riguardante padre e figlio, fu messa da parte e parzialmente riutilizzata per Final Fantasy VIII, mostrando quanto i metodi di produzione di Squaresoft fossero pragmatici e aperti ad accogliere idee di qualunque membro del team per ricevere soluzioni a qualunque problema, conservando le proposte anche nei casi in cui non si fossero rivelate ideali per il progetto in corso.
Con solo un anno di tempo per produrre il gioco, Kitase prese pieno vantaggio da questa filosofia, portando molte aree dello sviluppo a cambiare repentinamente di continuo, un metodo che senza dubbio può sembrare estremamente caotico e disorganizzato nonostante accogliesse la collaborazione in qualsiasi sua forma.
Il metodo di Kitase, per quanto informale e disordinato, permetteva di massimizzare i talenti individuali del personale al di là della loro mansione ufficiale, permettendo ad ogni genere di area di sviluppo di generare nuove idee, incanalate poi dagli specialisti del caso, un metodo in linea con la sua visione ampia e vaga di come dovesse essere il titolo ma che rendeva anche più naturale la lavorazione della narrativa, poiché permetteva ai singoli individui di esprimersi in base alla loro passione, piuttosto che al loro dovere.
Fu questa prospettiva che rese possibile realizzare il giovane Tetsuya Nomura, ancora giovane nella compagnia ma che già aveva avuto il suo primo ruolo di responsabilità durante lo sviluppo di Final Fantasy VI.
Saputo che Kitase volesse abbandonare l’idea di una storia concentrata su padre e figlio, Nomura pensò che l’intenzione fosse ritornare ad uno schema più tradizionale con eroe ed eroina e, senza avere una conferma effettiva di tale intenzione, progettò Cloud ed Aerith con la possibilità che non fossero necessari e diede loro una storia ed una personalità distinti, con possibili spunti di storia per entrambi i personaggi.
Suggerì Cloud come un ex-soldato alla ricerca di Sephiroth e di un senso di identità, senza un attaccamento alla salvezza del pianeta. A ruota, aggiunse Barrett e Red XIII, generando un’immensa quantità di lavoro non richiesto da sottoporre alla valutazione di Kazushige Nojima.
Le idee di Nomura furono accolte con entusiasto da Nojima e Kitase, notando anche diverse sfide stimolanti per il team come la realizzazione di Red XIII, che avrebbe permesso per la prima volta in un JRPG (2D o 3D) di avere un personaggio quadrupede.
I due, insieme a Nomura, collaborarono attivamente per la realizzazione di Sephiroth, cercando di formulare il tipo di personaggio e il suo ruolo nella storia generale del titolo, trovando ispirazione ne Lo Squalo di Spielberg: una minaccia largamente invisibile ma capace di intimidire lo spettatore attraverso piccoli segni della sua presenza senza apparire direttamente per buona parte della storia.
In questa fase creativa moltissime scene, cinematiche e tratti di gioco subirono costantemente modifiche in base alle nuove idee emerse o alle vecchia scartate. Solo uno era il punto fisso della narrativa, punto che serviva a realizzare a pieno la tematica della vita come elemento fugace e ciclicamente legato a doppio filo con il pianeta: il destino di Aerith, determinato sin dalle prime fasi della scrittura definitiva di Final Fantasy VII, si sarebbe distinto da quello di personaggi con sorti simili per le modalità, il peso e profondità.
Nessun atto di coraggio e valore idolizzato, niente grande battaglia, ma una profonda connessione con la realtà: irrevocabile, inaspettata e tragica.
L’iconica sequenza fu realizzata con la strettissima partecipazione di Kitase, che ne curò ogni singolo dettaglio scegliendo ogni elemento e dettaglio della scena in modo che l’evento venisse amplificato il più possibile.
Icona
La premessa ecologista e che mette al centro delle sue tematiche il concetto di vita, concepita originariamente nelle prime fasi di sviluppo, rimangono intatte nella versione finale del gioco. Si fa però spazio un ulteriore, importante tema che contraddistingue gran parte del cast di personaggi, specialmente il protagonista principale: quello dell’identità è un tema ricorrente e fondamentale nella storia di Final Fantasy VII, finendo per toccare direttamente gli sviluppi di ognuno dei membri del gruppo Avalanche, a volte in maniera rivoluzionaria.
Quello dell’identità è inoltre un tema che viene usato, parallelamente, con l’antagonista principale Sephiroth ed il suo legame con sua “madre” Jenova, entità antagonistica che molto deve alla narrativa lovecraftiana e che esercita una fortissima presenza di guida malevola sull’intero comparto di personaggi (tanto i protagonisti quanto gli antagonisti) per tutta la durata della storia.
Come originariamente pianificato, alcune prospettive sulla storia sono effettivamente diverse in base a quali membri sono presenti nel party: se da una parte questo permette al giocatore di costruire parzialmente la narrazione con i personaggi che più gradisce, questa scelta mette in secondo piano i personaggi non utilizzati, che raramente appariranno nella storia e mancheranno di interazione con il corso degli eventi.
Anche le sequenze casuali sono state, in parte, preservate sotto forma di ben due personaggi del cast completamente opzionali: Yuffie e Vincent sono facili da perdere per un giocatore alla sua prima partita, premiando la meticolosità nell’esplorazione in linea con una delle idee di design principali per Kitase, ovvero quella di concentrarsi sulla densità di contenuto piuttosto che la sua lunghezza.
Presa direttamente, infatti, la narrazione di Final Fantasy VII non è lunga e, anzi, a volte scorre anche fin troppo rapidamente da un evento all’altro, portando gli Avalanche a percorrere il Pianeta di città in città a volte facendo tappa per un solo, rapido dialogo prima di ripartire per la prossima destinazione.
Tra un viaggio e l’altro, tuttavia, il gioco può fare affidamento su contenuti extra realizzati approfonditamente, che spezzano il gameplay loop tipico di Final Fantasy in favore di una notevole varietà di gameplay.
Ecco quindi che il Gold Saucer ed i suoi numerosi minigiochi, l’allevamento Chocobo e la difesa di Fort Kondor diventano elementi significativi del gioco che aiutano il giocatore a venire coinvolto maggiormente nel mondo che si ritroverà ad esplorare.
A questo contribuiscono anche le numerose sezioni di gioco dal gameplay specificamente curato per creare sequenze uniche e memorabili: la fuga in moto, la discesa in snowboard, la parata di Junon, ecc., contribuiscono a dare una fortissima identità al titolo rendendo Cloud uno dei protagonisti più immersivi del franchise.
Anche il gameplay principale del JRPG, però, sì distacca dai canoni del passato con un nuovo, particolare sistema di sviluppo che abbatte le limitazioni delle classi dando un totale controllo della struttura e delle capacità del party al giocatore.
Il Materia System, con le sue ampie opzioni di personalizzazione e lo sviluppo separato da quello dei personaggi contribuisce alla rigiocabilità di Final Fantasy VII incentivando la sperimentazione.
Sfortunatamente, però, è anche un sistema con i suoi limiti, dettati da personaggi che finiscono inevitabilmente per essere migliori di altri per via delle loro differenze strettamente ricadenti sulle Limit Break a loro disposizione e dall’equalizzazione dei personaggi del cast contro l’individualismo e specializzazione che contraddistingueva i protagonisti dei precedenti Final Fantasy.
Figlio di uno sviluppo travagliato e fatto di costanti modifiche, sebbene mostri il fianco in alcune delle sue componenti Final Fantasy VII resta un titolo solido che, con il suo cast variegato e ben costruito, non lascia sorpresi davanti alla posizione che il titolo, il primo a portare ai JRPG una tale mole di lavoro, si è guadagnata.
Così come fu nel 94, anche il Remake di Final Fantasy VII sembra volersi concentrare sul portare qualcosa di nuovo nel franchise, sia dal punto di vista narrativo che dal punto di vista di gameplay: la promettente demo uscita il 2 marzo, che ripropone l’iconico attentato al reattore Mako che apre il titolo originale, mette in mostra alcune delle novità di questa moderna proposta con elementi narrativi ampliati e più sviluppati e un sistema di gioco che comunichi meglio l’energia e la dinamicità delle battaglie di Final Fantasy VII senza però sacrificare l’aspetto più strategico del gameplay.
Più delicata è la scelta di suddividere la storia in più capitoli, una formula che andrà approcciata con attenzione per comprendere al meglio quale sia la proposta del team di sviluppo in merito e cosa essa effettivamente comporti al di là di quanto rilasciato nelle interviste.
Il lancio ed il lascito
L’arduo percorso del team di Kitase, con specialisti dedicati che hanno dato il massimo possibile per la piena realizzazione della visione dietro al gioco, vide il suo pieno compimento il 21 gennaio 1997: con oltre 2 milioni di copie vendute, il titolo divenne immediatamente il best seller del franchise, ed uno dei più significativi giochi usciti su PlayStation fino a quel momento.
Square, tuttavia, aveva pochi dubbi sul successo di Final Fantasy VII in Giappone, e riteneva fosse il mercato occidentale a rappresentare la vera sfida definitiva: fu preparata una costosissima campagna pubblicitaria che vide la divisione occidentale di Square completamente riorganizzata dall’interno, con una stima ed obiettivo di piazzare almeno 750.000 copie: in meno di tre mesi, Final Fantasy VII superò il milione di copie in America del Nord, raggiungendo le 3 milioni di copie entro la fine dell’anno con altre 2 milioni piazzate in Europa.
Divenuto un fenomeno internazionale, Final Fantasy VII riuscì a rendere il JRPG un genere internazionale e, soprattutto, a far acquisire a PlayStation la fama di macchina per JRPG, portando numerosi altri sviluppatori a puntare su questa piattaforma per l’evoluzione di questo tipo di gioco.
Final Fantasy VII fu, in quegli anni, uno dei giochi più costosi mai prodotti di tutto il panorama videoludico che fu ampiamente ripagato nel corso degli anni.
Reso iconico dall’arduo lavoro del team di sviluppo, i design di Nomura e le musiche di Uematsu, il titolo sarebbe diventato la base per un intero progetto di ampliamento che comprende film e titoli spin-off di vario genere, reiterando più volte gli elementi chiave del mondo particolare di Final Fantasy VII portando i giocatori più appassionati a richiedere, nel corso degli anni, un remake, finalmente annunciato nel 2015 ed in uscita il 10 aprile 2020.
Quest’ultimo, per Square Enix, rappresenta oggi come allora uno dei più grandi rischi presi dalla compagnia: una reliquia del passato, una pietra miliare della quinta generazione e JRPG iconico, le ampiamente discusse scelte di approccio e design dovranno rivelarsi vincenti per poter conquistare definitivamente il pubblico, ed il minimo errore nella trasposizione contemporanea di un titolo così visionario potrebbero costare caro a tutto il franchise in maniera irreparabile.