Il mese di aprile promette di essere, per il mondo videoludico, un viaggio nei ricordi più significativi della quinta generazione di console rievocando in chiave moderna alcune di quelle esperienze che allora furono solo i primi passi nel mondo 3D.
Con i remake ormai alle porte, vogliamo guardare al passato e rivivere le versioni classiche ricordando perché e come Resident Evil 3: Nemesis e Final Fantasy VII sono rimasti nei cuori dei giocatori, la loro storia ed il loro lascito in quella che è stata un’epoca di passi avanti e rivoluzioni per il mondo videoludico.
La chiusura di una trilogia
Così come oggi è impossibile parlare di Resident Evil 3 Remake senza rivolgere uno sguardo al suo predecessore, anche 21 anni fa il legame tra Resident Evil 2 ed il suo sequel era saldo, complice la narrativa parallela ed il loro rilascio, proprio come accade oggi, a poco più di un anno di distanza e che mette in evidenza tanto le forti similitudini quanto le marcate differenze tra i due titoli.
Tra le numerose menti del Capcom Production Studio 4, responsabili per la realizzazione di questo titolo icona del franchise, le figure chiave del suo sviluppo e successo sono riconducibili nel produttore Shinji Mikami, lo sceneggiatore Yasuhisa Kawamura ed il direttore Kazuhiro Aoyama.
Fu proprio Mikami a concepire la serie per come la conosciamo oggi, ricalcando l’anima creativa del JRPG horror del 1989 “Sweet Home” pubblicato da Capcom su NES realizzando una casa infestata strutturata come un grande rompicapo, un’esperienza da escape room in cui tanto gli enigmi ed i misteri dell’ambientazione, Villa Spencer quanto la gestione del limitato inventario fanno da tassello di un puzzle elaborato in cui il giocatore è messo costantemente sotto pressione da una tensione e pesantezza atmosferica che pervade ogni istante della disavventura del team S.T.A.R.S. all’interno della magione.
Proprio l’intenzione di Mikami di focalizzarsi sull’ambiente più che sulla storia è stata la chiave di volta del gameplay loop di Resident Evil, che richiede la risposta a pericoli ignoti con risorse limitate all’interno della risoluzione del mistero che circonda la villa ai margini di Raccoon City.
Lo schema che ne risulta enfatizza inevitabilmente la sopravvivenza a situazioni estreme, portando Capcom a coniare il termine “Survival horror” come parte della promozione della loro nuova IP, consolidando Resident Evil come origine di un’etichetta e genere oggi ben noti e diffusi.
Fu però lo straordinario successo di Resident Evil 2 a convincere Capcom a riconoscere il potenziale della serie ed espanderne lo sviluppo, portando alla nascita di numerosi team di sviluppo differenti al lavoro su più progetti paralleli: tra questi troviamo i primi titoli destinati alla sesta generazione, Resident Evil: Zero e Resident Evil – Code: Veronica, oltre al vero e proprio Resident Evil 3, affidato alla direzione di Masaaki Yamada e un titolo spin-off legato a Resident Evil 2 targato all’interno della produzione come Resident Evil 1.9 diretto da Kazuhiro Aoyama.
Proprio quest’ultimo sarebbe finito per diventare il terzo capitolo che oggi conosciamo.
Sviluppo travagliato
Aoyama non era certo l’ultimo arrivato, avendo ricoperto ruoli chiave nello sviluppo di Resident Evil sin dalla sua prima iterazione, tuttavia già nelle prime fasi di sviluppo le difficoltà erano evidenti: il progetto 1.9, in quanto spin-off, avrebbe dovuto essere un titolo ridotto, con a disposizione un budget minore ed Aoyama avrebbe dovuto tenere saldamente le redini dello sviluppo e renderlo il più fluido possibile senza la stretta sorveglianza di Mikami, messo alle strette dai numerosi progetti in produzione sotto la sua responsabilità rendendo un progetto secondario come 1.9 l’ultima delle sue priorità.
Per ovviare alle difficoltà delle risorse ridotte Aoyama decise di coordinare la struttura di gioco attorno ad un’alta rigiocabilità, piuttosto che alla longevità dell’esperienza, così da tenere sotto controllo il progetto senza sacrificarne la sostanza.
Questa volontà influenzò significativamente l’intero design del gioco, includendo elementi unici del titolo che ne è risultato: gli enigmi, che nei precedenti capitoli erano sempre stati statici, con soluzioni uniche e memorizzabili, sono stati inseriti con più versioni alternative che venivano incluse e variate ad ogni partita variando l’esperienza.
Allo stesso modo vennero impostate più variabili nello spawn di nemici, oggetti, e addirittura armi, introducendo fattori relativamente casuali nel gameplay che mantenessero un certo livello di novità anche rigiocando più volte il titolo.
Questo tipo di variabilità, che oggi daremmo quasi per scontata, fu una significativa innovazione di design per l’epoca che ben si sposava con lo spirito horror della serie, dove l’imprevedibilità è una parte significativa dell’esperienza.
Tuttavia l’elemento forse più innovativo per un gioco come Resident Evil, oggi molto comune, fu l’inclusione della meccanica di “live selection”, una serie di bivi presentati al giocatore in punti chiave della narrazione in cui scegliere rapidamente se combattere o fuggire, nascondersi in un punto piuttosto che un altro, o gestire in maniera differente una situazione di immediato pericolo.
Queste decisioni spesso comportano conseguenze a lungo termine, al punto da modificare il percorso o l’equipaggiamento del giocatore, ma rendono anche noto ad un primo approccio che esiste un certo grado di rigiocabilità nel titolo, non essendo possibile rendersi conto del piazzamento variabile di nemici e oggetti ad una prima partita: grazie alle live selections il giocatore si ritroverà sin dalle battute iniziali ad interrogarsi su cosa sarebbe accaduto se avesse deciso diversamente, spingendolo a ripercorrere più volte l’esperienza per verificare le differenti strade offerte dal gioco.
Sulla scia del cambiamento
Come già detto in precedenza, il primo Resident Evil condivide lo spirito dietro le escape room, offrendo un’esperienza di fuga da forze sconosciute di cui man mano viene snodato il mistero.
Già dal secondo capitolo, la struttura del gioco enfatizza elementi differenti mettendo i protagonisti Leon e Claire ad affrontare nemici sì sconosciuti, ma in situazioni la cui priorità è la sopravvivenza più che la risoluzione di un mistero di fondo.
Certo, gli elementi enigmatici che avevano contraddistinto il primo capitolo fanno un loro ritorno, ma ciò che Resident Evil 2 espande maggiormente è il confronto con le minacce che infestano il dipartimento di polizia di Raccoon City: ecco quindi che il combattimento diventa più veloce, i nemici più numerosi sia per quantità che per varietà e le mostruosità affrontate diventano più aggressive e tenaci.
Questo significa anche, contrariamente al primo capitolo, che
l’enfasi è qui posta sulla gestione delle risorse disponibili più che
sull’ottimizzazione di un inventario a malapena sufficiente, che permane ma
risulta meno invasivo rispetto al suo predecessore.
Visto il lascito di Resident Evil 2 può sembrare strano oggi pensarlo, ma
questo inevitabilmente portò alcuni fan del primo capitolo a storcere il naso
per la deriva più d’azione che la serie aveva intrapreso già al suo secondo
capitolo.
Con 1.9 Aoyama scelse di riportare al centro dell’esperienza una dei protagonisti del primo capitolo, Jill Valentine, alle prese con la fuga di una Raccoon City completamente devastata dal T-Virus che ha reso gran parte della popolazione dei cannibali senza intelletto.
Per Jill la minaccia affrontata non è nuova, ha esperienze
pregresse con gli abomini creati dagli esperimenti bioterroristici della casa
farmaceutica Umbrella: sulla scia della direzione intrapresa da Resident Evil
2, quindi, le opzioni di combattimento vengono ulteriormente ampliate
attraverso due principali novità: la possibilità di fabbricare munizioni usando
le polveri disseminate per Raccoon City e la capacità di girarsi di 180 gradi
rapidamente, elemento divenuto parte integrante del franchise come forma di
controllo meccanico sui movimenti del personaggio, necessario a mantenere le
distanze da nemici sempre più rapidi, sempre più numerosi e sempre più
difficili da eliminare.
L’avventura di Jill include inoltre due elementi caratteristici specifici di
questo titolo: una schivata dall’implementazione rudimentale ma utile una volta
padroneggiata a dovere e una serie di elementi ambientali distruttibili che
permettono di gestire al meglio i nemici a schermo come barili esplosivi,
conduttori di elettricità instabili e via dicendo.
Per la prima volta, inoltre, è possibile muoversi lungo le scale come elemento integrante delle schermate (cosa che prima richiedeva un prompt d’azione), potendo addirittura cambiare direzione e girarsi rapidamente su di esse. Se questo rende la navigazione più rapida, tuttavia, significa anche che i nemici possono percorrere le scale, prima a loro inaccessibili, rendendo il posizionamento di Jill più complicato in alcune sezioni ed i nemici ben più pericolosi.
Ultimo ma non meno importante è l’elemento iconico e forse più riconoscibile del gioco, che darà titolo al gioco finale in occidente (in Giappone infatti il titolo del gioco è Biohazard 3: The Last Escape): l’arma biologica denominata Nemesis-T Type.
Un tenace persecutore
Resident Evil 2 aveva provato a sperimentare con l’inserimento di un boss la cui presenza veniva percepita più volte nel corso degli eventi attraverso il Tyrant T-103, noto comunemente come Mr. X.
Il mostruoso umanoide tuttavia risultò essere un occasionale ostacolo più che una vera minaccia costante.
Percependo come il tono più d’azione del secondo capitolo avesse deluso alcuni dei fan della serie, Mikami espresse la volontà di creare un nuovo elemento genuinamente spaventoso per 1.9.
Poco dopo l’uscita occidentale del gioco infatti fu Mikami stesso a dichiarare in un’intervista con PlayStation Official Magazine – UK: “Volevo introdurre un nuovo tipo di paura nel gioco, un senso persistente di paranoia. Nemesis mette tutto questo abbondantemente in gioco. Quando sparisce dopo il primo confronto, il giocatore vive in costante terrore del prossimo attacco. L’idea è di farlo sentire perseguitato.”
Furono queste le intenzioni dietro l’inclusione di Nemesis, una creatura che è tanto spiritualmente quanto biologicamente un successore del Tyrant e che mette in chiaro fin da subito quali siano le sue intenzioni pronunciando l’unica parola che il suo limitato intelletto gli concede: “S.T.A.R.S.”.
Un suono gutturale che, accompagnato da una musica ben distinta e riconoscibile e dai passi inconfondibili della monumentale creatura, finirà per diventare una fonte continua di tensione e di pressione per il giocatore.
Il senso di oppressione di Nemesis non deriva unicamente dai
numerosi confronti che Jill si ritroverà ad affrontare con lui nel corso del
gioco: molte delle live selection ruotano attorno alla sua comparsa,
richiedendo una risposta rapida da parte del giocatore di fronte al minaccioso
orrore.
In questi casi il giocatore può scegliere se combattere o se fuggire, un
dilemma di facile soluzione per un giocatore nuovo, ma che diventa una scelta
ponderata per chi ha più praticità con i sistemi del titolo: diversamente da
Mr. X, infatti, Nemesis ricompensa in ogni sua comparsa chiave il giocatore se
temporaneamente sconfitto, cosa che richiede un considerevole numero di risorse
ma che promette di ampliare l’arsenale della ragazza con oggetti altrimenti
impossibili da ottenere.
Allo stesso modo fuggire può non essere necessariamente una risposta saggia: diversamente da ogni nemico di Resident Evil mai apparso fino a questo momento, infatti, Nemesis è in grado di cambiare schermata, aprire le porte e continuare a seguire Jill a lungo, rendendosi una minaccia letale ed implacabile al punto da diventare la vera attrazione principale del gioco.
Cambio di rotta
Lo sviluppo di Resident Evil 1.9 era già ad un punto piuttosto avanzato quando le dinamiche interne degli studi Capcom e dei loro piani per il franchise iniziarono a smuoversi in maniera piuttosto repentina.
Il primo evento critico fu la cancellazione del Resident Evil 3 di Yamada, i quali design preliminari sembravano piuttosto inefficaci portando il terzo capitolo del franchise ad una riprogettazione guidata da Hideki Kamiya.
Con la PlayStation 2 alle porte, tuttavia, il produttore Yoshiki Okamoto ritenne opportuno allocare il team di Kamiya alla nuova console con la prima bozza di Resident Evil 4, destinato a cambiare fino a diventare il primo Devil May Cry ed iniziando il percorso di Clover Studios prima e Platinum Games poi.
Questo fu il cambiamento più incisivo per il team di Aoyama, che si ritrovò tra le mani un progetto spin-off improvvisamente diventato il prossimo capitolo principale della serie.
Se da un lato questo ha portato linfa vitale all’interno del progetto rinforzando il team e le risorse a disposizione, il gioco era ormai ad uno stadio troppo avanzato di produzione per poter essere cambiato in maniera significativa, restando dunque vincolato alla traiettoria di design inizialmente concepita da Aoyama.
Il peso di responsabilità più grande di questa scelta ricadde sulle spalle di Yasuhisa Kawamura, responsabile per la sceneggiatura del titolo, che da un giorno all’altro si è ritrovato dal lavorare ad uno spin-off secondario ad un titolo principale di una serie e conclusivo di una trilogia e di una intera generazione di console.
Fino alla sua entrata nel progetto, inoltre, Kawamura non aveva avuto alcuna esperienza nell’ambito del game development, avendo lavorato principalmente sulla scrittura in prosa e manga (in particolare come assistente di Yukito Kishiro nella creazione di Alita – Angelo della Battaglia).
Il povero scrittore si ritrovò improvvisamente a dover conoscere i punti cardine della narrativa di tutto il franchise per poter costruire una storia che potesse reggere il confronto con l’apprezzata narrativa dei due predecessori, elaborarla per funzionare in sintonia con i bivi delle live selection e farlo in modo che si incastrasse con il canone narrativo fino ad allora stabilito.
Fortunatamente Kawamura si rivelò l’uomo giusto per Capcom, riuscendo a produrre una narrativa capace di fare uso di tutti gli elementi di gioco incastrandosi perfettamente con gli eventi di Resident Evil 2, che avviene contemporaneamente ad una porzione del suo sequel.
Sebbene i design del progetto furono lasciati prevalentemente intatti, la transizione da spin-off a titolo principale ebbe i suoi effetti su alcuni cambiamenti: molte aree dell’ultima metà del gioco furono ampliate considerevolmente e l’inclusione della modalità Mercenari era destinata a diventare un elemento prediletto dai fan.
L’eredità di Nemesis
Resident Evil 3 non riuscì a raggiungere i quasi 5 milioni di copie vendute del suo predecessore, piazzandone un po’ più di 3,5 milioni. Il titolo, rilasciato tra settembre e novembre del 1999 per Giappone e Stati Uniti e nei primi mesi del 2000 per l’Europa, fu ben ricevuto e divenne rapidamente apprezzato da moltissimi fan, anche oggi.
Nonostante un percorso estremamente difficile in un periodo in cui gli schemi e le modalità di sviluppo videoludico non erano ancora stati perfezionati, il team di Aoyama è riuscito in maniera encomiabile a trasformare un piccolo progetto secondario in quello che è uno dei titoli più memorabili ed iconici di un franchise importante e pionieristico di casa Capcom.
Innegabilmente, Resident Evil 3 ha portato sulle piattaforme di gioco un’esperienza degna del suo nome, lasciando un’impronta indelebile sul futuro del franchise: Nemesis è una delle creature più iconiche e riconoscibili del panorama videoludico, comparendo anche in titoli secondari, cross over e spin-off futuri da parte di Capcom, la modalità Mercenari fu ricevuta così positivamente da diventare un titolo a sé stante nel 2011 e molte delle meccaniche uniche introdotte in Resident Evil 3 divennero parte integrante dell’identità del franchise con la girata di 180 gradi a fare da padrona e la fabbricazione di munizioni rimessa in gioco da Resident Evil 7 e dal remake di Resident Evil 2.
Dal remake, anche in virtù di quanto già visto, possiamo
aspettarci una simile progressione: sicuramente la componente meccanica avrà
più elementi d’azione rispetto a Resident Evil 2 Remake, con la schivata di
Jill al centro delle novità di gameplay
e gli elementi di interazione ambientale tra le opzioni di combattimento.
Al centro dei riflettori, però, sarà sicuramente Nemesis su tutto: colui che
rese iconico l’originale porta un certo peso sulle proprie spalle e subirà un
confronto diretto con quello che, di fatto, ha definito tutto il gioco in cui è
apparso.
Superare questa sfida sarà probabilmente l’impresa più ardua per il team
guidato da Masachika Kawata e Peter Fabiano e scopriremo tra poche settimane,
il 3 aprile, se è stato all’altezza di questo difficile compito.