Perché Strappare lungo i bordi di Zerocalcare racconta l’esperienza di chi ha vissuto il suicidio di una persona cara in maniera molto onesta? Una riflessione personale.
ATTENZIONE: Questo articolo contiene spoiler su Strappare lungo i bordi
CONTENT WARNING/TRIGGER WARNING: In questo articolo si parla del tema del suicidio. Approcciare la lettura con cautela
Il suicidio e i pensieri suicidi non sono una cosa da sottovalutare, ma nemmeno di cui vergognarsi. Se stai pensando di farla finita, è importante trovare qualcuno con cui parlarne. In Italia c’è il personale specializzato di Telefono Amico Italia: potete chiamare tutti i giorni dalle 10.00 alle 24.00 al numero di telefono 02 2327 2328, oppure gratuitamente via web all’indirizzo www.telefonoamico.net.
Qualche giorno fa, mi sono imbattuta in un commento su Strappare lungo i bordi, la serie animata di Zerocalcare in onda su Netflix.
In breve, questo commento portava due, legittime critiche a Strappare lungo i bordi.
La prima è che il tema del suicidio avrebbe dovuto essere segnalato prima di essere presentato nell’ultima puntata, in cui piomba un po’ come un fulmine improvviso. Infatti, il tema del suicidio è uno di quei temi estremamente delicati che, purtroppo, se presentati senza le dovute precauzioni, possono innescare processi particolarmente pericolosi nelle persone con tendenze suicide. Ecco perché, per esempio, in questo articolo ci sono i disclaimer in alto.
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La seconda è che, nell’ultimo episodio, parrebbe che la vera vittima non fosse Alice (la donna suicidatasi), bensì il protagonista della serie, ossia Zerocalcare stesso. Ciò avverrebbe perché si porrebbe eccessivamente l’attenzione sui suoi rimorsi (non aver capito che Alice aveva dei sentimenti nei suoi confronti, il dubbio che “se ci fossimo messi insieme forse lei non si sarebbe suicidata”), piuttosto che sul fato di Alice, che in fin dei conti è quella che ci ha rimesso la vita.
Due parole sul possibile disclaimer sul suicidio in Strappare lungo i bordi
Ora, questo articolo si focalizzerà principalmente sulla seconda critica mossa a Strappare lungo i bordi, ma penso che sia giusto dire due parole anche in merito alla prima.
Ci tengo a specificare che io non sono una persona che ha mai avuto particolari pensieri suicidi, quindi non posso assolutamente parlare per chi deve o ha dovuto affrontare questo mostro interiore.
Personalmente, faccio parte delle persone che non avevano letto i fumetti di Zerocalcare, quindi in Strappare lungo i bordi la morte di Alice prima e poi la scoperta del suo suicidio mi hanno investita con la forza di un tir che passa sopra a un riccio in autostrada. Da parte mia, penso anche che fosse questo l’intento della serie: pugnalarti. E no, se avessimo avuto il disclaimer a inizio episodio, dubito che sarebbe stato altrettanto d’impatto.
E, a modo suo, l’essere così di impatto ha reso, almeno per me, quell’episodio particolarmente catartico. Ma questa è solo la mia esperienza personale e capirete nel prossimo paragrafo perché parlo di catarsi.
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Detto questo, assodato che sì, probabilmente un disclaimer iniziale avrebbe reso meno “potente” l’ultimo episodio, dobbiamo però fare anche un altro discorso.
Ossia quello in cui prendiamo coscienza del fatto che la salute delle persone vale più della sorpresa dello spettatore. Se una persona con tendenze suicide (presenti o passate), vede l’ultimo episodio di Strappare lungo i bordi senza disclaimer e viene quindi investita a piena potenza dal dolore di queste tendenze, allora forse è il caso di mettere il suo benessere prima del resto.
E quindi probabilmente è il caso di mettere un disclaimer iniziale.
Disclaimer necessari prima di proseguire
Quello che leggerete qui sotto sarà una riflessione personale, basata sulla mia esperienza personale.
NON è un attacco verso le persone che si sono suicidate, che hanno tentato il suicidio, o che hanno/hanno avuto pensieri suicidi.
Questa NON è una gara a chi soffre di più, perché non ha senso fare questo tipo di paragoni.
Il paragrafo qui sotto parlerà di come Strappare lungo i bordi rispecchi molto la mia esperienza e, nello specifico, le conseguenze che ho personalmente subito dopo il suicidio di una persona a me cara. In tal senso, spiegherò perché, dal mio personale punto di vista, ha senso che l’ultimo episodio di Strappare lungo i bordi si concentri sui sentimenti di chi resta, piuttosto che sul dramma di chi se ne va.
Perdonate l’uso del plurale (lo userò per comodità), ma il paragrafo qui sotto non ha la pretesa di parlare per tutte le persone che hanno visto un proprio caro suicidarsi.
Chi resta a raccogliere i cocci
Ormai tre anni fa, una persona a me molto cara si è suicidata.
Capirete che, quindi, per me vedere l’ultima puntata di Strappare lungo i bordi non è stata una passeggiata.
Un po’ per il modo di raccontare di Zerocalcare, che infila queste informazioni così da prenderti alla sprovvista e colpirti là dove fa più male, proprio perché non eri pronta a erigere i soliti muri di stoicismo. Ma un po’, anche, perché questa morte per me non si è mai cicatrizzata. Probabilmente perché non le ho messo i punti, come direbbe Sara.
Ma, dopo aver visto Strappare lungo i bordi, mi sono resa conto di aver avuto bisogno di quell’episodio. Perché no, non era focalizzato sull’esperienza di Alice, bensì su quella di Zero, come era stato anche detto nella critica di cui avevamo parlato prima.
Secondo me, però, non si sarebbe potuto fare diversamente. Infatti, la triste verità che ho appreso negli ultimi tre anni è che noialtri, che rimaniamo qui dopo che una persona cara si suicida, non abbiamo davvero modo di raccontare la sua storia.
Come dice Sara, non esiste un solo motivo per cui una persona si toglie la vita. Spesso, si tratta di un nugolo di motivi, tutti accumulatisi nel corso anche di dieci, venti, trent’anni, e aggrovigliatisi insieme in un enorme ammasso nero insondabile, e inaffrontabile. E no, noi che restiamo spesso non conosciamo tutti questi motivi.
“Perché l’ha fatto?” e “Avremmo potuto fare qualcosa?”
E questa è una delle cose che tormenta chi ha visto un proprio caro suicidarsi: non sapere esattamente il perché del suo gesto e, quindi, non sapere se avremmo potuto davvero fare qualcosa per aiutare.
Avremmo potuto davvero cambiare il destino di questa persona? Le avremmo impedito di togliersi la vita, o magari avremmo solo ritardato l’inevitabile?
Se le fossimo stati più vicini, sarebbe stato sufficiente? Se avessimo rinunciato a certe cose, come l’andare a vivere in un’altra città, avremmo cambiato qualcosa?
È quindi almeno parzialmente colpa nostra se questa persona si è suicidata?
O è colpa di qualcun altro? O è colpa del sistema che non è stato in grado di aiutare?
Ma, alla fine, di solito non c’è una risposta univoca a queste domande. E spesso la verità è che noi, da soli, non saremmo stati in grado di cambiare un bel niente.
Annaspare nel dolore, e nella consapevolezza di essere stati inutili
Ed è così che rimaniamo, noi che abbiamo visto una persona cara suicidarsi. Siamo pieni di dubbi e di domande, di rabbia e di dolore.
Cerchiamo una spiegazione, un modo per razionalizzare quello che è successo. E spesso la via più facile è convincersi che sia colpa nostra, o colpa di un’altra persona specifica, o che, se avessimo fatto qualcosa, non avremmo visto il nostro caro togliersi la vita. Ma sono tutte cazzate, che servono soprattutto per mascherare il fondo del pozzo che è il nostro lutto: il dolore.
E alla fine, noialtri e noialtre restiamo qui. Ad annaspare come pesci. Cercando una ragione che ci rassicuri e che in qualche modo ci faccia pesare di meno la nostra inutilità, e la paura che ci fa quel groviglio nero e insondabile di ragioni per cui il nostro caro si è ammazzato.
Abbiamo fallito, o siamo stati inutili. Qualunque sia la verità, fatto sta che una persona a cui vogliamo bene è morta, e non abbiamo potuto farci nulla.
Il dolore di questa consapevolezza resta, ed è la sola cosa certa che ci rimane.
E mentre la persona a noi cara si è tolta dall’equazione, noi rimaniamo qui, e alla nostra equazione si aggiunge un nuovo tassello. E questo tassello doloroso, umiliante e terrificante non ce lo toglieremo mai davvero.
Qual è la sola storia che possiamo raccontare, quindi?
Quindi no, Zerocalcare non ha incentrato l’ultimo episodio su Alice, perché non poteva farlo. Perché è così che si sentono coloro che hanno vissuto il suicidio di una persona cara.
Non possiamo raccontare la storia della persona suicida, perché alla fine non sappiamo davvero perché si sia tolta la vita. Le sole cose che sappiamo del caro suicida sono quelle che noi e e le altre persone che hanno vissuto questo dramma con noi abbiamo messo insieme. E sono solo frammenti della persona morta.
La sola cosa che possiamo raccontare davvero è la nostra reazione, il nostro dolore, il nostro disperato annaspare nei dubbi, nella rabbia, nei sensi di colpa. Nei “è stata tutta colpa mia” e nei “se avessi fatto questo, X non sarebbe morto”.
Qualsiasi altra modalità di racconto sarebbe stata pietista e inautentica. Anzi, sarebbe stata in qualche modo paternalistica nei confronti della persona suicidatasi, perché ci saremmo auto-nominati suoi portavoce, senza averne davvero il diritto.
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Due parole conclusive
Se, quindi, il racconto del suicidio di Alice in Strappare lungo i bordi vi è sembrato troppo parziale, non è per una mancanza dell’autore, ma per una mancanza intrinseca, propria di chi ha visto un proprio caro suicidarsi. Non sappiamo davvero cosa e perché sia successo. Sarebbe rassicurante saperlo e poter parlare per questa persona. Ma non possiamo farlo, e questa consapevolezza è estremamente dolorosa.
Quindi sì, personalmente posso dire che Zerocalcare sia stato notevolmente onesto nel modo in cui ha raccontato il suicidio di Alice in Strappare lungo i bordi.
Se questo articolo vi è parso più pasticciato e arrabbiato del solito, avete ragione, e mi scuso. Personalmente, avevo bisogno di mettere in ordine questi pensieri, e ho pensato che forse avrebbero potuto essere d’aiuto a qualcun altro.