Parliamo di Dialect, un gioco di ruolo in cui si seguono la vita e la morte di una lingua, edito in Italia da Narrattiva, di cui abbiamo intervistato Michele Gelli!
Di cosa sia e di come funzioni Dialect ne hanno già parlato in molti, quindi non staremo a dilungarci troppo sul funzionamento di questo gioco di ruolo, ma vi rimanderemo agli ottimi articoli di Player.it e Storie di Ruolo.
In questo articolo, invece, vorrei approfondire il motivo per cui un gioco sulla vita e sulla morte delle lingue possa essere interessante, anche per chi non sia un amante delle lingue. In tal senso, ho anche intervistato Michele Gelli, direttore della casa editrice che ha portato Dialect in Italia, Narrattiva.
Dopo tutto, se un gioco del genere è stato creato da linguisti e l’edizione italiana ha necessitato della revisione di una linguista, non si tratterà di un gioco troppo specialistico? Andiamo a scoprirlo.
Dialect in breve: due parole sul gioco
Dialect è un gioco di ruolo creato da Kathryn Hymes e Hakan Seyalioglu, edito in Italia da Narrattiva a partire da Lucca Comics & Games 2019.
Questo titolo è pensato per one-shot autoconclusive, masterless e diceless. Il gioco ripercorre le vicende di una società isolata, la quale nel tempo sviluppa la propria lingua per parlare della particolare situazione in cui si trova.
Che tipo di comunità? E che tipo di lingua?
Potreste essere i membri di una setta religiosa andati a vivere ai limiti della civiltà perché la società moderna non fa per voi, e vorrete crescere le nuove generazioni secondo i vostri principi. Oppure potreste essere una comunità di ex-schiavi, bloccati sull’isola tropicale in cui eravate stati deportati e decisi a costruire una vostra società. Altrimenti, potreste interpretare un gruppo di orfani di strada, costretti a vivere di espedienti e a parlare in codice tra voi per non farvi capire dai “grandi”.
La comunità si sviluppa nel corso di tre ere, durante le quali il mondo esterno si farà sempre più presente e invasivo, finché la comunità non sarà costretta a sciogliersi o ad essere inglobata nel mondo esterno. Ogni giocatore/trice interpreterà un personaggio chiave di questa comunità, vivendone i cambiamenti attraverso i suoi occhi. Ciascun personaggio potrà intavolare una scena per era, giocando una delle carte che ha pescato dai tre mazzi disponibili, uno per ogni era. Ogni carta chiedere di creare una nuova parola per descrivere un evento o un’entità rilevante per la comunità (la morte, il denaro, gli amici, un’esclamazione, l’amore, ecc.), oppure di modificarne una già esistente. Man mano che si passa alle carte della seconda e della terza era, le nuove parole rifletteranno sempre di più i dissidi interni alla comunità.
Alla fine, quando la comunità si disgrega, si giocherà un ultimo giro, in cui i personaggi utilizzano le carte Legacy e stabiliscono cosa sia conservato e cosa si perda per sempre della lingua creata. Al termine della one-shot, le persone giocanti saranno le sole a conoscere la lingua creata durante il gioco.
Intervista a Michele Gelli di Narrattiva
Per arricchire questa breve disamina su Dialect e sulla sua accessibilità, ho pensato di fare due domande anche a colui che più di tutti ha voluto portare questo gioco di ruolo in Italia.
Stiamo ovviamente parlando di Michele Gelli di Narrattiva.
Da quello che hai potuto vedere, per giocare a Dialect bisogna avere delle basi di linguistica? Oppure si tratta di concetti che vengono acquisiti spontaneamente man mano che si gioca?
Wow. Così, per rompere il ghiaccio, partiamo con domande semplici e poco impegnative…
Si tratta di concetti che non solo apprendiamo, ma “metabolizziamo” parlando una lingua. O imparandone una seconda. In Italia direi direttamente una terza, visto che tanti – chi più o chi meno – parlano sia italiano che un dialetto. Anche se magari non siamo familiari con la terminologia, siamo familiari con l’uso. Io credo che per saperli li sappiamo già. Ed una partita ci fa vedere come funzionano questi meccanismi. Un poco c’è anche il fascino del prestigiatore che svela il segreto dietro a un numero di magia.
Forse è proprio chi ha una formazione accademica – e quindi un uso più cosciente di questi concetti !–, che magari vede ed utilizza coscientemente questi meccanismi “razionalmente”, a pensare che ci sia bisogno di una formazione specifica.
Ho sentito di persone restie a provare Dialect, poiché l’idea di un gioco di ruolo sul linguaggio sembra un passatempo più accademico che divertente. Nella tua esperienza, queste considerazioni si sono rivelate vere?
Nella mia esperienza, è vero il contrario.
Quando dici alle persone che “seguiranno le vicende dei loro personaggi a partire dai cambiamenti del linguaggio” ottieni più curiosità che altro. Una espressione “WTF?” che secondo me è stata il motivo del sold-out a Lucca Comics & Games. Poi il gioco – che è assolutamente geniale – ha fatto il resto.
Se devo essere sincero, quello che più temeva che si potesse rivelare un esercizio di stile molto accademico ero io. Ma dopo N partite, una più coinvolgente e strappalacrime dell’altra, non ho potuto che ricredermi. Gli autori sono dei maledetti geni. Anche il gioco degli stessi autori che porteremo a Play Modena 2020 (Signs) è emotivamente molto forte. E non vedo l’ora di provare Xenolanguage, che hanno in playtest.
Cosa si può imparare da un gioco come Dialect?
Una delle cose che ho imparato io è quanto facilmente le parole ti rimangono appiccicate addosso. Specie quando l’esperienza che le ha create è così divertente ed entusiasmante. Molte delle parole che ci siamo inventati nelle varie partite sono diventate dei “meme” nella cerchia dei giocatori che le hanno usate. E in un certo senso stiamo lottando per tenerle in vita. Il che la dice lunga su quanto ci aveva preso il gioco…
Quanto è stato difficile tradurre Dialect e a che punto del lavoro avete pensato di rivolgervi ad un linguista?
Che un linguista – o figura “equipollente” – avrebbe rivisto il testo finale lo ho deciso la prima volta che ho letto il manuale. Le procedure del gioco erano chiarissime (ed estremamente semplici!), ma il testo mi ha costretto a utilizzare google con una certa frequenza. Il che di solito è sinonimo di due cose.
Uno: il gioco è bellerrimo (e qui solo chi ha fatto lo scientifico o il classico mi capirà), perché mi ha fatto venire voglia di sbattermi per capire anche i dettagli del testo.
Due: l’edizione italiana avrebbe avuto qualche nota in più, per affascinare anche i giocatori più “pigri”. Da qui l’esigenza del linguista …
Ci hai accennato al fatto che la tua esperienza di informatico ti sia tornata utile per capire lo spirito di Dialect. Ce ne puoi parlare meglio?
Come informatico, di linguaggi ne parlo tanti. Tanti morti (e per fortuna! Altrimenti ci sarebbero ancora studenti costretti a imparare il LISP!), tanti che ne vengono fuori da non si sa dove (e qui potrei fare un elenco sterminato!), e alcuni che hanno avuto un successo talmente enorme (come il C o il BASIC) da avere un’infinità di dialetti. Ci sono strumenti informatici che fanno analisi lessicale e sintattica.
Di linguaggi ne ho anche scritti e creati. Molte delle cose che mi venivano spiegate da Dialect o le sapevo, o avevano immediata “risonanza” con cose che ho studiato e/o uso tutti i giorni.
Hai sentito di qualcuno che abbia usato le due tabelle finali per creare parole nuove su base latina o italiana?
Allo stato no. Ma il gioco è uscito da pochissimo.
Ho visto che in generale le persone non hanno problemi a creare parole nuove e/o a fare overloading di vecchie. In “informatichese”, questo vuole dire dare un nuovo significato di una parola esistente quando usata in un certo contesto.
Ma ho in test uno scenario sulle legioni perdute (quelle per cui Ottaviano si aggirava per il palazzo reale gridando “Vare, Vare redde mihi legiones!”) che lo richiede obbligatoriamente. Sono curioso di vedere che succede.
Come sono nate le tre nuove carte che avete creato per l’edizione italiana di Dialect?
Sono nate per esigenze di stampa.
Quando si stampa non in digitale, spesso si stampano gli oggetti a gruppi. In questo caso avremmo avuto diverse “caselle” vuote (e quindi spreco di carta, che per un editore è una cosa inaccettabile). Per cui ci siamo detti… perché non fare delle altre carte?
Ne abbiamo scritte una ventina, testate e scelto tre fra le migliori. Non è detto che quelle che mancano all’appello non compaiano prima o poi …
Dialect è un gioco di linguisti per linguisti?
Sfatiamo subito un piccolo mito su questo gioco, ossia che sia stato creato da due linguisti, poiché questa affermazione è un pochino opinabile. Dialect, infatti, è stato creato da un matematico, Seyalioglu, e da una linguista computazionale, Hymes.
Questa loro formazione non rende, ovviamente, Hymes e Seyalioglu meno competenti nella creazione di un gioco di ruolo sul linguaggio. Dopo tutto, Hymes per essere una linguista computazionale avrà sicuramente una solida base in linguistica. A sua volta, Seyalioglu afferma di essere interessato ad esplorare il significato culturale ed emotivo del linguaggio. Tuttavia, credo che Dialect, nella sua semplicità (e necessaria semplificazione dei processi linguistici), rispecchi il fatto che né Hymes, né Seyalioglu siano linguisti teorici.
Infatti, Dialect non presta particolarmente attenzione alla teoria linguistica (e ai suoi dibattiti) dietro al linguaggio. MA PER FORTUNA! Infatti, in Dialect si parla di parole, sintagmi e frasi senza chiedersi troppo quale sia la loro differenza. Perché se ve lo steste chiedendo, no, non è affatto banale dare una definizione di parola, sintagma o frase che vada bene per tutti e per tutte le lingue. Solo di “frase” abbiamo oltre 300 definizioni, per esempio.
Al contrario, Dialect adotta un approccio molto orientato al fare, al creare il linguaggio e le situazioni in cui il linguaggio risulta centrale. Nel farlo, lascia indietro l’enorme bagaglio degli studi linguistici più pesanti, affidandosi alle poche nozioni spiegate e alle conoscenze linguistiche interiorizzate da chi gioca. In questo modo, Dialect estrae ciò che noi conosciamo della lingua, chiedendoci di manipolarlo, ci rende più consapevoli del potere della lingua.
Per questo motivo, no, non serve essere dei linguisti per giocare a questo gioco di ruolo. E, ripeto, PER FORTUNA!
Cosa si crea veramente in Dialect?
Tutto il manuale di gioco parla di language (nell’edizione italiana si alterna tra lingua e linguaggio), ma Dialect non permette di creare lingue.
Ciò che i giocatori e le giocatrici creeranno durante le one-shot sono infatti varietà locali di lingue, ossia dialetti. Tuttavia, col termine “dialetto” non intendiamo niente di simile ai nostri dialetti italiani, i quali in realtà sono tutti lingue vere e proprie. Il nostro “dialetto” sarà più vicino al significato dell’inglese “dialect” (ecco spiegato il titolo!), ossia sarà una varietà di un’altra lingua pre-esistente, ma parlata solo da una comunità ristretta.
Infatti, su Dialect voi non creerete da zero l’intera lingua che utilizzerete, completa di casi, preposizioni, regole sintattiche, tempi/aspetti/modi verbali o variazioni fonologiche. Insomma, non farete la roba brutta che studiano i linguisti, ma “solo” (si fa per dire!) la parte più superficiale della lingua, ossia il lessico, utilizzando alcune regole di formazione delle parole. Il lessico, infatti, grazie ai prestiti da altre lingue e ai neologismi che quotidianamente si coniano, è la parte che più mutevole di ogni lingua. Sono invece molto più costanti sintassi, morfologia e fonologia.
Ciò ovviamente non vuole sminuire il lavoro dei giocatori e delle giocatrici. Che sia una lingua o un dialetto, infatti, ciò che create sarà comunque un prodotto linguistico solo vostro, che per qualche ora è stato vivo e pimpante!
A cosa serviva una linguista per l’edizione italiana di Dialect?
Perché, per quanto Dialect non sia un gioco di linguisti per linguisti, il manuale contiene comunque alcuni termini e concetti un po’ tecnici. Quindi, un(a) linguista era necessaria.
Purtroppo, infatti, la linguistica è una di quelle discipline che gli studenti e le studentesse universitari/e non hanno mai sentito nominare, usciti/e dalle superiori. Nella scuola dell’obbligo si tende, infatti, ad insegnare solo grammatica, materia che non solo è ben diversa dalla linguistica, ma che viene anche abbandonata dopo i primi anni delle superiori.
Pertanto, è difficile che qualcuno che non abbia studiato specificamente linguistica all’università possa avere dimestichezza con termini come fonema. Badate bene: non è una questione di ignoranza, ma proprio di struttura fallata dell’educazione linguistica che riceviamo a scuola. E non fatemi nemmeno iniziare a parlare della grammatica che insegnano molti docenti, per favore, o mi infervoro male.
Personalmente ringrazio molto Michele Gelli e Narrattiva per avermi dato la possibilità di lavorare all’edizione italiana di Dialect nel ruolo di consulente linguistico. Spero che i venti milioni di noticine a piè di pagina in più diano una mano a comprendere meglio alcune questioni un po’ ostiche. Inoltre, spero che le due tabelle di regole aggiuntive per creare parole su base morfologica italiana o latina possano tornarvi utili!