In cosa consiste il genere noto come survival game? In cosa la serie Netflix Squid Game riprende questo genere? E perché ha avuto così tanto successo?
Ciao, io sono Dodger e sono qui oggi per parlarvi di Squid Game, che il Cercatore Y ha recensito l’altro giorno.
No, non sto facendo questo cappello solo per prendere tempo. Non è assolutamente difficile impostare un discorso sulla serie hit del momento di cui tutti parlano. Come potrei avere problemi a trovare qualcosa da dirvi che non abbiate già letto, sentito o commentato sui social? Quindi, visto che la questione non si pone, partiamo dal principio.
In questo articolo non ci saranno spoiler sul finale di Squid Game
Squid Game è una serie sudcoreana scritta e diretta da Hwang Dong-hyuk. Distribuita in tutto il mondo su Netflix a partire dallo scorso 17 settembre, vanta un successo esplosivo, anche se a scoppio leggermente ritardato.
In 9 episodi della durata di circa un’ora (tranne uno, lungo poco più di 30 minuti, perché volevano farmi bestemmiare), un gruppo di 456 persone mette la propria vita in gioco per ottenere un premio di 45600000000 ₩. I partecipanti sono, essenzialmente, gli ultimi tra gli ultimi. Si va dal protagonista indebitato con la malavita e dipendente dalle corse di cavalli all’immigrato pakistano sfruttato in fabbrica, dalla profuga nordcoreana in cerca di denaro per far fuggire i familiari lasciati indietro all’anziano ammalato e dimenticato dalla società.
È un racconto sociale che mette al centro i mediocri, per non dire i falliti addirittura, abitanti di un mondo in cui l’unica strada è competere fino alla morte. E non credo sia un caso il fatto che, sebbene sia in cantiere già dal 2008, il progetto di Hwang Dong-hyuk abbia trovato la via verso la luce proprio ora, dopo il successo di pellicole come Us di Jordan Peele e Parasite del sudcoreano Bong Joon-hom, entrambi usciti nel 2019.
Ma se anche voi, come me, abitate su internet, avrete certamente notato un acceso dibattito sui meriti e i demeriti di Squid Game. Oggi, le domande sulla bocca di molti sembrano essere: ma ‘sta serie è veramente buona o no? E perché tanto successo?
Probabilmente è presto per avere una risposta sicura: è sempre più facile soppesare le cose a distanza di tempo. Ma, volendo provare a chiarirci le idee, possiamo intanto toglierci dai piedi alcune questioni e vedere cosa ci rimane in mano alla fine.
Cosa prende Squid Game dal genere dei survival game?
Il primo pomo della discordia riguarda l’originalità del prodotto. Come spesso accade, da una parte c’è chi grida al capolavoro e chi al già visto.
Addirittura, c’è chi ha accusato Squid Game di plagiare As The Gods Will, film del 2014 diretto da Takashi Miike e basato sull’omonimo manga uscito tra il 2011 e il 2012. E sì, potremmo star qui a dibattere a lungo sul fatto che Hwang Dong-hyuk abbia iniziato a lavorare alla sua storia già nel 2008, sul concetto di idee parallele e molte altre cose.
Tuttavia, partendo dal presupposto che tanto la verità esatta non la sapremo mai, di una cosa possiamo avere la certezza: Squid Game e As The Gods Will sono entrambi prodotti di genere. E quel genere è il survival game.
Da dove nasce e come si sviluppa il genere del survival game?
Se avete frequentato il mondo degli anime e dei manga abbastanza a lungo, sarete inciampati sicuramente almeno una volta in un’opera survival game. E molto probabilmente quella volta avete incontrato proprio Battle Royale.
La storia di Battle Royale comincia con un romanzo di Koushun Takami nel 1996 per poi trasformarsi in manga e in film nel 2000, tutti prodotti molto apprezzati ancora oggi.
Qui, la metafora dell’eccessiva competitività della società giapponese è rappresentata da una legge bizzarra. Infatti, ogni anno, una classe terza media estratta a sorte dovrà prendere parte al programma, che prevede che i partecipanti si uccidano a vicenda fino a lasciare una sola persona superstite. Se l’obiettivo non viene raggiunto entro il tempo stabilito, tutti muoiono: ribellarsi sembra inutile. Il successo dell’opera è enorme e sono numerosissime le storie che ne traggono ispirazione.
In Giappone il survival game diviene e rimane molto popolare. Solo per citare alcuni titoli, troviamo Gantz (2000 [1]), Mirai Nikki (2006), Deadman Wonderland (2007) e Sword Art Online (2009). In Occidente, invece, il mondo degli Young Adult distopici è stato segnato già dal 2008 dalla saga di Hunger Games di Suzanne Collins. (E non fatemi mai più leggere bestialità in merito a un presunto plagio di Hunger Games in Battle Royale, perché fino a prova contraria il 1996 viene prima del 2008).
Non ci dovrebbe sorprendere quindi né il fatto che la genesi originaria di Squid Game sia stata nel 2008, in concomitanza con l’uscita di molte delle opere citate, né che esistano nutrite fila di spettatori che esclamano: ma io questo l’ho già visto!
Ed è vero: l’avete già visto.
Perché, in fin dei conti, sempre di un prodotto di genere si tratta.
In cosa Squid Game cambia, rispetto ai precedenti titoli survival game?
Un cambiamento, a onor del vero, c’è.
Infatti, se nella maggior parte dei survival game i partecipanti ai giochi (o almeno i protagonisti della storia) sono adolescenti o comunque giovanissimi, in Squid Game non è così. Qui si parla, per lo più, di adulti, persone che hanno avuto la loro occasione in una società iniqua e in cui rialzarsi dopo una caduta sembra impossibile. E i caduti sono i privilegiati: alcuni dei giocatori, come gli immigrati Ali e Sae-byeok, non hanno avuto nemmeno una posizione da cui cadere.
Detto questo, ritroviamo comunque molte delle principali tipologie umane e delle dinamiche tra personaggi che caratterizzano il genere, con alcune variazioni sul tema in cui non mi addentro perché sarebbe allarme spoiler.
Perché Squid Game ha avuto un tale successo?
Ma se non si tratta di un tema nuovo, perché tutto questo successo? Perché proprio adesso? Perché il survival game passa da fenomeno di nicchia a hit globale?
Qui sto entrando nel terreno delle speculazioni, ma se vi va di seguirmi, queste sono le mie idee.
Il contributo delle opere “apripista” e della pandemia
Probabilmente si tratta di una combinazione fortunata (ma non per questo fortuita) di più fattori:
- Grazie a Parasite (ma non solo a Parasite) c’è una maggiore attenzione da parte del pubblico generalista occidentale alle produzioni sudcoreane. Precedentemente, queste erano oggetto della passione degli amanti di Park Chan-wook e dei fenomeni K-pop e K-drama (che comunque hanno contribuito al discorso);
- Nel dicembre del 2020 sono apparse su Netflix ben due serie “apripista”. La prima è la giapponese Alice in Borderland, tratta dall’omonimo manga di Haro Aso e rinnovata dopo sole due settimane dal debutto. La seconda è la sudcoreana Sweet Home, basata sul webtoon di Kim Kan-bi e Hwang Young-chan, prima serie sudcoreana a entrare nella Top 10 di Netflix negli Stati Uniti, raggiungendo la terza posizione;
- Se da una parte, probabilmente, il pubblico generalista occidentale si è abituato al sapore di questi prodotti, dall’altra forse anche la pandemia ha giocato il suo ruolo. Infatti, oggi per molti il mondo sembra ancor più competitivo di quanto non fosse prima. Così, lo spirito nichilista, già tipico della generazione Millennial, ha trovato nuova linfa (che sembra una contraddizione in termini, ma avete capito cosa intendo).
Il potere di distribuzione di Netflix
Non dobbiamo poi dimenticarci chi è a distribuire queste serie.
Infatti, Netflix è il colosso liquido che abita ogni tablet e ogni dispositivo, portando un genere fino a poco fa considerabile di nicchia sotto gli occhi di spettatori insospettabili. Per capirci: i miei genitori si sono bevuti Squid Game in due sedute, meno della metà di quelle che sono servite a me.
E per questo, così come non dobbiamo stupirci di chi dice “ma io questo l’ho già visto”, non dobbiamo sorprenderci che ci siano anche persone che si sono trovate davanti a una novità.
Due parole conclusive
Queste erano le parole che avevo da spendere sul fenomeno Squid Game.
Di questa serie, la cosa che mi lascia davvero l’amaro in bocca sono gli ultimi tre episodi, preparatori di una seconda stagione che davvero non mi interessa guardare su queste premesse. Ma qui si aprirebbe il territorio degli spoiler, e ce li teniamo per un altro luogo e un’altra occasione.
Se intanto sono riuscita in qualche modo a interessarvi, fatemelo sapere, che catturo qualche professionista delle traduzioni per parlarvi, una prossima volta, del perché si sia scelto di non doppiare.
PS: Comunque sì, sono vestiti come quelli de La casa di carta. Non vi si può nascondere niente.
[1] Per brevità, tutte le date citate fanno riferimento all’anno di inizio pubblicazione dei manga.